CECI N'EST PAS UNE EXPLICATION
- Margherita Bietti
- 27 apr
- Tempo di lettura: 4 min
L'ARTE DI NON CAPIRE L'ARTE

Senza un'idea regolativa dell'arte, come si può distinguere un'opera che merita di essere apprezzata da quelle celebrate per abitudine o per passiva conformità a una certa propaganda?
Spesso, osservando un dipinto o una scultura in un museo, si può avere la sensazione che tutti ne comprendano più profondamente il significato. Può accadere di pensare che l’arte appartenga quasi esclusivamente a un’élite in grado di coglierne davvero il senso, come se un attento studio della vita dell’autore o del movimento delle sue pennellate fosse la chiave definitiva per goderne appieno. Con il tempo, però, mi sono convinta che non sia così: l’arte appartiene a tutti, soprattutto a chi la vive come una piacevole scoperta.
Heidegger, ne L'origine dell'opera d'arte, sostiene che l’opera non sia semplicemente il frutto della genialità dell’artista: è piuttosto l’artefice a dipendere dalla verità che l’opera stessa dischiude. Il senso più autentico dell’arte non è un semplice accertamento empirico, ma un atto di alétheia, ovvero l’essere manifesto, il farsi visibile della verità. Ciò che rende straordinaria l’opera d’arte è la sua capacità di concretizzare questa rivelazione, svelando il mistero delle cose e il nostro legame con esse nel nostro essere al mondo. Tuttavia, questa verità non è mai definitiva: l’essere stesso rimane avvolto in un enigma, che riflette la condizione umana come gettatezza in un’esistenza priva di una chiara origine.

La contemplazione di un’opera d’arte è dunque una finestra sulla nostra esistenza, una dimensione che non solo suggerisce il turbamento, ma lo pretende. Lo smarrimento davanti a un’opera non è soltanto naturale, ma necessario in quanto interrogarsi sull’essere dell’opera significa interrogarsi su noi stessi e sul mondo che ci circonda.
L’arte è una filosofia visiva: l’artista è il narratore, e il nostro sguardo è la storia che si compone davanti a noi.
Su questa stessa linea di pensiero lo storico dell’arte britannico Michael Baxandall, nel suo Painting and Experience in Fifteenth Century Italy, si concentra sulla definizione di ciò che chiama "occhio dell'epoca", ovvero l'insieme di competenze e abitudini visive che il pubblico del XV secolo portava con sé nell'osservare opere d'arte complesse. Un dipinto è sensibile alle capacità interpretative dello spettatore, il che significa che la stessa opera può essere percepita in modi diversi a seconda di chi la osserva. Gran parte di ciò che chiamiamo gusto risiede nell'interazione tra le richieste interpretative imposte da un'opera e le capacità di comprensione visiva possedute dal fruitore.
L'esperienza visiva di un individuo è, in parte, culturalmente determinata, modellata dalla società in cui vive. Tra i fattori che influenzano questa esperienza vi sono i criteri con cui classifica gli stimoli visivi, le conoscenze che utilizza per arricchire la percezione immediata dell’immagine e l'atteggiamento che assume nei confronti dell'oggetto artistico.
La maggior parte dei dipinti italiani del Quattrocento aveva una funzione religiosa, non solo per i soggetti rappresentati ma anche per lo scopo che intendevano servire. Le immagini non erano semplici rappresentazioni, ma strumenti per approfondire la consapevolezza spirituale dello spettatore, inviti visivi alla riflessione sulle verità del Cristianesimo. Tuttavia, il rapporto tra idee religiose e immagini pittoriche non era puramente illustrativo: il pittore, in particolare quello religioso, non si limitava a fornire una formula di fede, ma cercava di sollecitare un coinvolgimento attivo nel pubblico. Secondo Baxandall, il legame tra pittura e cultura più ampia era complementare: l’arte non doveva semplicemente confermare ciò che lo spettatore già conosceva, ma offrirgli uno stimolo abbastanza ricco da ampliare la sua comprensione.
L’esperienza artistica non è mai assoluta e non si riduce a un semplice fatto percettivo legato al gusto, ma si configura come un evento trasformativo: la grande opera d’arte non ci lascia mai indifferenti, perché ci espropria dalla nostra dimensione quotidiana, sconvolge le nostre certezze e ridefinisce il nostro modo di vedere il mondo
Tentare di comprendere l’origine di un’opera con mezzi rigorosi e definitivi sarebbe vano, perché la sua capacità di rinnovarsi dipende proprio dal fatto che la sua origine resta inafferrabile. L’opera d’arte, esibendo sé stessa, esibisce un mondo, rivelando il significato autentico delle cose. Ma se da un lato espone un mondo, dall’altro se ne priva: la sua presenza trascende il contesto e il luogo della sua produzione, in un fenomeno irreversibile di conservazione e perdita che costituisce il fascino stesso dell’arte.

L’arte è quindi innanzitutto un’opera umana non solo perché è l’artista a darle forma, ma anche perché essa si sottrae a qualsiasi schema prestabilito, creando un dialogo diretto con chi la osserva. L’esperienza dell’opera d’arte non è oggettivabile, perché il suo significato non è mai definitivo: anche la totalità delle interpretazioni che può assumere nel tempo non potrà mai
racchiuderne l’essenza ultima, altrimenti cesserebbe di parlarci.
Un esempio emblematico di questa apertura interpretativa è offerto dall’opera di Lygia Pape, il cui lavoro sfida la rigidità dei codici artistici tradizionali e invita lo spettatore a diventare parte attiva del processo creativo.
1959, Brasile. L'esplorazione del progetto Livro da Criação - Il Libro della Creazione - presso il Museu de Arte Moderna di Rio de Janeiro segnò una rottura con la tradizione astrattista convenzionale. Ispirata al movimento Neo-Concretista dell'America Latina, che mirava a infondere emozione e sensibilità nell'arte astratta, Pape introdusse una rappresentazione tridimensionale del vocabolario astratto. Rifiutando la normale concezione di libro, il suo Libro della Creazione conteneva invece una varietà di quadrati dipinti con i colori primari che, manipolati dallo spettatore, si dispiegavano in forme di carta bidimensionali. In questa rappresentazione poetica, ogni elemento diventa un esperimento sulla forma, capace di evocare una storia o un ricordo. In quell’epoca di grande ottimismo, in Brasile, poter dare forma alla propria storia e alle proprie forme scultoree, decidendo di volta in volta quali si vogliono lasciare nascoste e quali invece portare allo scoperto, può innescare un più vasto dialogo sulla libertà e sulla possibilità. È quella di Lygia Pape solo un’esempio di possibilità compositiva che non solo da spazio ma rende protagonista lo spettatore attraverso la creazione di opere partecipative che mettevano in discussione lo spazio tra artista e spettatore, nonché il contesto sociale dell'arte stessa.
Mi piace pensare che l’arte non debba essere compresa a tutti i costi. Esistono significati che trascendono non solo la semplice rappresentazione, ma anche il nostro istinto di definirli e circoscriverli. È proprio questa loro inesauribilità a rendere l’arte così ricca: non perché sia incompleta ma perché lascia spazio a un continuo rinnovamento del nostro sguardo.

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