CHE COSA RESTA DELLA SIRIA?
- Sombrero
- 31 mar
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Aggiornamento: 26 lug

L'8 dicembre 2024 ha segnato una svolta storica per la Siria: il regime di Bashar al-Assad è stato definitivamente rovesciato quando le forze ribelli hanno preso il controllo di Damasco, costringendo Assad a fuggire in Russia, dove gli è stato concesso asilo politico. Questo evento ha messo fine a oltre cinquant'anni di governo della famiglia Assad, lasciando il paese a confrontarsi con un futuro incerto ma ricco di speranza per molte delle sue comunità.
La caduta del regime è stata il culmine di un'offensiva lampo iniziata il 27 novembre 2024 da una coalizione di gruppi di opposizione guidata da Hay'at Tahrir al-Sham (HTS). Le forze ribelli hanno rapidamente conquistato città chiave come Aleppo e Hama, avanzando verso la capitale con una strategia mirata e una determinazione alimentata da anni di conflitto. Il 7 dicembre, i ribelli hanno preso Homs, tagliando le linee di rifornimento verso Damasco, che è caduta il giorno successivo.
In seguito alla cacciata della famiglia Assad e a quasi quattro mesi di transizione incerta, la Siria ha compiuto un ulteriore passo verso la ricostruzione istituzionale: il nuovo governo di transizione ha ufficialmente prestato giuramento sabato 29 marzo a Damasco.
Il gabinetto, composto da 23 membri di diverse religioni ed etnie, è il primo nella nuova fase politica del Paese. La sua formazione segna l’inizio concreto della transizione promessa dal presidente ad interim Ahmad al-Sharʿe sostituisce l’esecutivo provvisorio che aveva gestito le prime settimane del post-Assad.

In un gesto dal forte valore simbolico e diplomatico, al-Shar’ ha incluso nel governo una donna, esponente cristiana, e un rappresentante della comunità alawita – una mossa letta da molti come un tentativo di mandare segnali distensivi alla comunità internazionale e ottenere l’alleggerimento delle sanzioni occidentali.
Diversamente dal passato, il nuovo esecutivo non sarà guidato da un primo ministro: la nuova costituzione temporanea prevede che le funzioni di coordinamento siano affidate a un segretario generale. Questo cambiamento strutturale riflette un intento dichiarato: superare le logiche di potere verticistico che hanno caratterizzato mezzo secolo di autoritarismo, aprendo – almeno apparentemente – una stagione di riforme istituzionali e pluralismo.
In questo contesto di trasformazione e incertezza per il futuro, emergono storie personali che gettano luce sugli effetti devastanti del conflitto e sulla resistenza della popolazione siriana. Due racconti in particolare, liberamente ispirati a testimonianze locali realmente accadute, offrono uno sguardo unico sulla complessità di questa guerra e sul coraggio di coloro che l'hanno vissuta in prima linea.
Tra le rughe e le ferite di queste storie di vita si respira realmente la Siria negli ultimi 13 anni di guerra civile.
Il primo è la storia di Hassan, un ex detenuto della famigerata prigione di Saydnaya, che narra in dettaglio le torture subite e le condizioni disumane a cui sono stati sottoposti migliaia di prigionieri. La sua esperienza getta luce sugli orrori del sistema repressivo del regime di Assad e sul coraggio necessario per sopravvivere e raccontare.
Il secondo è il racconto di Nesrin, una combattente curda delle Unità di Protezione delle Donne (YPJ), che ha partecipato alla controffensiva contro i ribelli sostenuti dalla Turchia nel nord della Siria. La sua storia descrive i sacrifici e le sfide del suo popolo, oggi più che mai minacciato dalle nuove milizie al potere, per difendere il territorio curdo e le aspirazioni della sua gente.
La prigione di Saydnaya
Hassan si svegliò nel buio, il corpo rigido e il sapore del sangue in bocca. Non era possibile capire se fosse giorno o notte ed il tempo era scandito solo dai richiami dei carcerieri e dai lamenti soffocati dei detenuti. Saydnaya era un luogo dove l’umanità veniva distrutta un pezzo alla volta.
Quel giorno, il nome di Hassan fu urlato da una voce rauca. Si alzò a fatica, i ceppi ai polsi e alle caviglie gli rendevano ogni movimento un tormento. I suoi passi riecheggiavano nei corridoi umidi e stretti, portandolo verso una stanza illuminata da una lampadina fioca. Dentro, un medico e un soldato lo aspettavano.
“Come stai?” chiese il medico con un tono sarcastico. Non aspettavano risposte. Dopo una rapida occhiata, il medico fece un cenno al soldato, che colpì Hassan al fianco con un bastone. Il dolore lo piegò in due, ma nessuna parola uscì dalla sua bocca. Lo riportarono in cella.
La cella di Hassan era un cubicolo soffocante che divideva con altri tre uomini. Sami, che aveva perso due dita sotto tortura, sedeva con lo sguardo fisso sulla porta. Khaled, il più vecchio, respirava a fatica, e Yusuf, il più giovane, tratteneva a stento le lacrime. Nessuno parlava. Ogni parola poteva essere usata contro di loro.
Ogni giorno, i carcerieri entravano nelle celle per raccogliere le “offerte”. Il capo-cella era costretto a nominare due o tre uomini da sottoporre alle torture.
Si vociferava tra i detenuti che in un’altra sezione del carcere i secondini del regime costringevano i prigionieri ad uccidere i loro compagni di celli in fin di vita in cambio della propria sopravvivenza o di una razione extra di cibo. Anche in queste circostanze dunque c’era da sentirsi fortunati.

Hassan ricordava il suono delle urla, che riempivano il corridoio. Venivano trascinati fuori e colpiti con bastoni rinforzati in silicone, strumenti capaci di spezzare costole e schiacciare ossa. A volte, tornavano indietro con le mani fratturate, costretti a infilare le dita tra le sbarre delle porte per poi essere schiacciate brutalmente.
I lunedì e i giovedì erano noti come i “giorni delle catene”. Hassan sapeva cosa significava: i carcerieri scendevano con una lista di nomi. Chi veniva chiamato non tornava mai indietro. Sami fu uno di loro. Quando venne portato via, il suo sguardo comunicava solo una cosa: “Non dimenticare.” Hassan non riuscì a dormire quella notte, immaginando il corpo del suo amico appeso a una catena di ferro.
La routine quotidiana era un ciclo di privazioni e sofferenze. Il cibo era scarso: un pezzo di pane duro, sette olive contate e una ciotola d’acqua sporca. La fame era così intensa che spesso sognava di essere a casa, seduto al tavolo con sua moglie e sua figlia. Ma quei pensieri erano un tormento a loro volta, un’illusione che lo abbandonava al risveglio.
Un giorno, Hassan fu portato all’aperto per una doccia. I detenuti venivano spinti in fila, colpiti con bastoni mentre entravano e uscivano da un getto d’acqua gelida. Hassan sentì il bastone spezzarsi contro le sue ossa, ma non urlò. Non poteva concedere ai carcerieri quella soddisfazione.
Le malattie erano una condanna a morte lenta. Tubercolosi, scabbia e pidocchi infestavano i corpi dei detenuti. Hassan vide Yusuf, il più giovane, coprirsi di piaghe. Quando il medico della prigione venne a visitarlo, lo colpì invece di curarlo. Yusuf morì pochi giorni dopo, e il suo corpo fu lasciato nella cella per ore, un monito per tutti.
Le esecuzioni erano un rituale macabro. Hassan ricordava le urla soffocate dei prigionieri portati nella stanza nera. Quando uno di loro non sopravviveva alle torture, i detenuti dovevano avvolgere il corpo in una coperta e trascinarlo fino alla porta. I carcerieri lo portavano via, probabilmente verso le fosse comuni di Najha.

Le poche visite familiari erano una tortura emotiva. I carcerieri obbligavano i prigionieri a radersi e a indossare vestiti sporchi per incontrare i propri cari. Hassan ricordava il dolore negli occhi della moglie quando lo vide per la prima volta dopo mesi. Non poteva dirle della fame, delle percosse, delle notti passate a tremare per il freddo, dei vestiti che lei portava rubati dalle guardie carcerarie.
Una notte, Khaled parlò per la prima volta dopo settimane. “Dobbiamo ricordare,” disse. “Non siamo numeri. Un giorno qualcuno dovrà sapere cosa è successo qui.” Quelle parole rimasero impresse nella mente di Hassan.
Quando il regime cadde e le porte di Saydnaya furono aperte, Hassan uscì alla luce del sole per la prima volta in anni. Camminava a fatica, con le catene ancora ai polsi. Guardò il cielo, ma non sentì alcuna gioia. Era libero, ma tutto ciò che aveva amato era stato distrutto.
Oggi Hassan vive in un piccolo appartamento a Damasco. Passa le sue giornate a scrivere, raccontando dei “giorni delle catene”, delle torture, della fame. Scrive per Sami, Khaled, Yusuf e per tutti coloro che non ce l’hanno fatta. Ogni volta che posa la penna, chiude gli occhi e ripensa a Sami, al suo sguardo silenzioso, e a quelle ultime parole non dette che continuano a risuonare nella sua mente.
Manbij
Nesrin aveva sempre saputo che la sua vita sarebbe stata intrecciata alla terra che la circondava, ma non avrebbe mai immaginato che sarebbe stata anche legata a una battaglia per il futuro del suo popolo. Nata e cresciuta in un villaggio curdo vicino a Kobani, Nesrin era abituata al suono del vento che attraversava le pianure, non ai rombi dei caccia turchi che ora solcavano quel cielo.
Era accaduto tutto troppo in fretta. Dopo la caduta del regime di Assad, la Siria era piombata in una nuova fase di caos, con potenze straniere e gruppi armati che si contendevano il controllo. Nesrin, membro dell’Unità di Protezione delle Donne (YPJ), aveva visto il suo villaggio trasformarsi in un campo di battaglia. Quando i ribelli sostenuti dalla Turchia avevano preso Manbij, aveva capito che non ci sarebbe stato riposo finché quelle terre non fossero tornate sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane (SDF).
“Nesrin, abbiamo ricevuto notizie dalla diga di Tishrin,” disse Ruken, una delle sue compagne di battaglia. “Siamo riusciti a respingere i ribelli, ma ciò che accadrà a Manbij dipende da noi.”
Nesrin annuì, stringendo il fucile che aveva portato con sé sin dal primo giorno in cui aveva scelto di unirsi alle YPJ. Era stanca, il corpo segnato da giorni di combattimenti e notti passate sotto i bombardamenti, ma il pensiero di abbandonare la lotta non l’aveva mai sfiorata.
Le notizie dal fronte erano frammentarie, confuse, ma una cosa era chiara: la Turchia, tramite l’Esercito Nazionale Siriano (SNA) il gruppo ribelle che sosteneva, non avrebbe rinunciato al suo obiettivo di conquistare quei territori.
I villaggi attorno a Manbij erano diventati il teatro di battaglie brutali. Ogni casa, ogni campo, ogni strada era stata trasformata in un’altra linea del fronte. All’alba, Nesrin e il suo gruppo si spostarono verso le linee avanzate. La missione era chiara: riconquistare un villaggio strategico vicino alla diga di Tishrin. Quando raggiunsero il villaggio, il silenzio era opprimente, interrotto solo dal rumore distante dei droni. Le case, molte delle quali distrutte dai bombardamenti, erano spettrali. Era difficile immaginare che fino a poche settimane prima, quelle strade fossero state percorse da bambini che giocavano.
L’attacco iniziò con un’esplosione. Un carro armato dell’SNA era stato colpito dai combattenti delle SDF, e Nesrin si trovò a correre attraverso una strada coperta di detriti, il cuore che le martellava nel petto. Ogni passo era un rischio, ma sapeva che non poteva fermarsi.
Entrando in una casa abbandonata, trovò una donna anziana rannicchiata in un angolo.
“Non avere paura” disse Nesrin in curdo, offrendo alla donna un sorso dalla sua borraccia,. La donna la guardò con occhi pieni di terrore, ma anche di gratitudine. Nesrin la trascinò fuori dalla casa, portandola in una postazione sicura. «Resta qui!» gridò, già voltandosi di scatto, pronta a tuffarsi di nuovo nel caos del combattimento.
Le ore successive furono un’escalation di violenza. Caccia turchi bombardarono le posizioni delle SDF, costringendole a cercare riparo. Nonostante le perdite, Nesrin e il suo gruppo riuscirono a respingere i ribelli e a riconquistare il villaggio. Quando la notte calò, il villaggio era di nuovo sotto il controllo delle SDF, ma il prezzo pagato era stato alto. Ruken era stata ferita, e molti altri non ce l’avevano fatta.

Seduta accanto a un fuoco improvvisato, Nesrin guardò il cielo stellato. Nonostante tutto, si sentiva viva. Ogni battaglia era una ferita, ma anche una testimonianza della loro determinazione. Il popolo curdo aveva sempre combattuto per la propria libertà, e questa nuova resistenza non sarebbe stata diversa.
“Un giorno queste terre torneranno a essere nostre,” disse Ruken, fasciata ma ancora piena di speranza. “Non importa quanto tempo ci vorrà. Abbiamo aspettato per generazioni.”
Nesrin annuì, stringendo le mani intorno a una piccola pietra che aveva raccolto durante la battaglia. Era un simbolo della sua terra, della sua gente e della sua lotta. Domani sarebbero tornate sul fronte, ma per quella notte, si concesse un attimo di tregua, con il fuoco che le scaldava il viso e la promessa di un futuro migliore che le ardeva nel cuore.
Che cosa resta quindi della Siria?
Una nuova bandiera, un governo fresco di insediamento con molte promesse, ma sotto l’abito nuovo le cicatrici dei siriani sono ancora lì.Il governo guidato da Ahmad al-Sharaa si presenta come il simbolo di un nuovo corso, ma per i curdi assomiglia fin troppo al vecchio: un presidente che controlla giudici e parlamento, e con i ministeri più importanti ancora in mano a pochi fedelissimi.
Sembra estremamente forzato chiamarla svolta democratica.Viene ancor più difficile chiamarla “inclusione” quando il secondo gruppo etnico del Paese viene sistematicamente escluso dalla scrittura del proprio futuro.
I curdi non chiedono elemosine politiche né ministeri di facciata. Chiedono garanzie costituzionali, rappresentanza reale, riconoscimento nazionale. Ma la risposta, finora, è stata la stessa che conoscono da decenni: marginalizzazione e delegittimazione.
Mentre alcuni analisti internazionali già teorizzano lo sblocco delle sanzioni e la “normalizzazione”, mentre alcuni giornali parlano di stabilità e ricostruzione, le realtà locali raccontano un’altra storia: quella di una transizione che rischia di diventare solo una restaurazione camuffata.E allora la vera domanda non è se questo governo sia legittimo agli occhi delle potenze occidentali. La domanda è: lo è agli occhi del popolo siriano?
Per capirlo, bisogna partire da lì. Dai corpi. Dai volti. Dalle voci come quella di Hassan, sopravvissuto all’inferno di Saydnaya, che ci ricorda cosa significhi vivere sotto un regime che tortura e uccide nell’ombra. O come quella di Nesrin, che combatte per difendere il suo popolo e la sua terra, ma viene esclusa dal tavolo dove si decide il suo destino.
Sono storie come le loro, vite spezzate che meritano di essere raccontate.
Dimenticarle è il primo passo verso l’indifferenza.

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