Coloro che si Allontanano da Internet
- Martina Di Tullio
- 22 nov
- Tempo di lettura: 8 min

Nella cosmovisione andina, le costellazioni non si formano unendo i punti luminosi delle stelle, bensì a partire dalle macchie di oscurità nel cielo. La più importante è la Yakana, che ha la forma di una lama, l’animale fondamentale per la vita negli Andes (Zuidema & Urton, 1976). Ciò che può sembrare un vuoto, dunque, può rivelare tanto quanto – o più – della stella più brillante.
Questo breve testo è una riflessione sull’importanza di prestare attenzione agli spazi, ai momenti e alle situazioni che non sono digitalizzati quando cerchiamo di comprendere il ruolo delle tecnologie digitali e il modo in cui danno forma alle nostre vite. Così come i vuoti oscuri modellano le costellazioni andine, questi intervalli possono illuminare dimensioni dell’esistenza che altrimenti verrebbero eclissate dal bagliore degli schermi. In particolare, mi riferisco alle circostanze quotidiane che operano fuori da internet pur potendolo fare, non per mancanza di accesso ma per scelta. Per contestualizzare queste considerazioni, comincerò presentando un’esperienza recente di lavoro sul campo.
Dal 2022 viaggio due volte l’anno a Cusi Cusi, un villaggio rurale e indigeno quechua nella Puna di Jujuy (nord-ovest dell’Argentina), per svolgere la mia ricerca di dottorato sull’incorporazione di internet e delle tecnologie digitali nella vita quotidiana della comunità. La connettività è recente: nel 2019 il governo ha installato il wi-fi gratuito nella piazza del paese, e solo nel 2023 sono riusciti ad avere internet nelle loro case. Conobbi il luogo nel 2017, come parte di una squadra archeologica. Arrivando dalla città di Buenos Aires, lavorare lì significava passare un periodo di disconnessione e, quindi, di attenzione piena. Nel corso degli anni ho documentato le lotte e le negoziazioni che hanno permesso alla comunità di connettersi alla Rete Federale in Fibra Ottica (Monje e Vilte, 2021; Di Tullio, 2023, 2024), così come i molteplici modi in cui la vita quotidiana delle persone ha iniziato ad assumere nuove forme e dinamiche basate su questa nuova infrastruttura. La domanda centrale della ricerca è diventata quindi cosa significhi la connessione permanente per la vita in questo territorio, minacciato dall’avanzata dell’estrattivismo del litio.
Ero lì nel maggio del 2025, al mio sesto viaggio di campo. Ero arrivata da pochi giorni e non riuscivo ad abituarmi al ritmo della comunità. Ero ansiosa nella mia stanza, a scrollare diverse app mentre pensavo: cosa ci faccio qui? Una domanda familiare a molti antropologi e molte antropologhe, poiché le nostre ricerche non seguono cammini chiari e predeterminati. Perché sono tornata, se ho già molte informazioni per scrivere la tesi, e se le conversazioni con i miei interlocutori mi sembravano ripetitive, persino ridondanti? Stavo perfino controllando i biglietti per tornare indietro, finché decisi di uscire a prendere un po’ d’aria per schiarirmi le idee. Mentre scendevo le scale, all’improvviso scivolai e caddi per sette gradini fino al pianerottolo.
«Stai bene?!» esclamò Consuelo correndo ad aiutarmi. Stava pulendo, e per questo i pavimenti erano bagnati. Dopo aver verificato che non mi ero rotta nulla, si portò una mano al petto e disse: «Mi hai fatto saltare l’ánimu!». Negli Andes, tutti gli esseri del Kay Pacha (il mondo terreno) sono dotati di ánimu (camac in quechua), il loro principio vitale (Bugallo & Vilca, 2011). Questo può “saltare via” in situazioni di pericolo. Ci siamo spaventate entrambe per l’incidente, e per questo ci si è “saltato” – quasi ci è sfuggito – l’ánimu. Fisicamente ebbi solo dei lividi; simbolicamente, quel momento e la reazione di Consuelo mi ricordarono che, per quanto mi sentissi a mio agio, non ero a casa: ero nella Puna. Si tratta di una regione molto alta e secca, dove aria e acqua sono scarse. La parola “puna” indica anche il mal di montagna, che può essere combattuto prendendosi cura del corpo con acqua, foglie di coca o diverse erbe medicinali. Ma è importante anche prendersi cura della disposizione interiore. Evitare l’apunamiento richiede dunque cure sia fisiche sia simboliche. Per questo, la prima cosa che feci dopo l’incidente fu andare a ch’allar, cioè fare offerte alla Pachamama per ringraziarla e chiederle permesso e protezione.
Tuttavia, anche dopo tutto ciò continuavo a non sentirmi del tutto tranquilla. «Che mi succede?» chiesi ad alcuni amici su WhatsApp, i quali seppero indicarmi con grande chiarezza: «Quello che ti succede è che sei connessa tutto il giorno». Grazie a quella osservazione mi resi conto di quanto avessi usato il cellulare in quei giorni, tanto quanto le persone con cui stavo convivendo. Decisi allora di tornare a marcare un contrasto: eliminai le app dei social network dal telefono, spensi internet, ricominciai a prendere appunti con carta e penna, e limitai l’uso del cellulare il più possibile nei giorni successivi. Questo ridusse significativamente i miei livelli di ansia e aumentò la mia attenzione verso ciò che mi circondava. Guardando la Puna in faccia, evitai che mi catturasse.

Quei giorni di disconnessione mi portarono due rivelazioni di interesse antropologico ed epistemologico, sotto forma di serendipie. In primo luogo, ricordai l’idea di Wright (2008, 2022) sull’importanza che durante il lavoro etnografico si produca uno spostamento ontologico. Anche senza andare fisicamente in un luogo lontano, è importante sentirsi in una certa misura fuori posto, o a disagio, per attivare una forma di attenzione diversa da quella della vita quotidiana, che permetta di percepire meglio ciò che accade intorno. Seguendo questo ragionamento, se trascorro tutti i miei giorni online, oggi per fare etnografia devo anche spostarmi tecnologicamente. Anche quando il tema della ricerca sono le tecnologie – o ancor più, se si tratta di questo. Era più semplice in passato, quando le comunità della Puna non avevano internet, o quando c’era solo nella piazza. Ma ora devo intenzionalmente sottrarmi ai flussi digitali e creare quella distanza da sola.
In secondo luogo, questo spostamento tecnologico mi permise di leggere in modo diverso molte delle esperienze e conversazioni che stavo avendo con i miei interlocutori, come in una cassa di risonanza. Mentre stavo sotto il sole del pomeriggio, seduta sulle rocce, a intrecciare maglioni di lana di lama con il gruppo di artigiane della comunità, cominciai a interrogarmi su situazioni come quella: tutti quegli spazi e momenti nei quali le persone, pur avendo internet, scelgono di non usarlo, sia perché completamente concentrate in attività che non lo richiedono, sia perché limitano attivamente il loro uso.
Da quel momento in poi iniziai a comprendere certe interazioni in modo diverso. Per esempio, quando un vecchio pastore parlò con me a lungo della campagna, della lingua quechua, del calcio e della politica; ma perse ogni interesse nella conversazione quando menzionai internet, si congedò e se ne andò. Oppure quando una giovane della mia età mi spiegava che non era interessata a usare molto il cellulare perché non era necessario per i suoi lavori nei campi e a scuola, o per prendersi cura dei familiari malati, e nel suo poco tempo libero preferiva comporre musica. Allo stesso modo, Consuelo, un’artigiana e cuoca di quarant’anni, sceglieva di non usare la macchina per filare né la calcolatrice perché, come dice lei, «non bisogna lasciarsi vincere dalle macchine». O quando un poliziotto mi raccontò come negoziava il tempo di uso di internet con sua figlia adolescente, insistendo sul fatto che «non bisogna lasciarsi intrappolare da internet, bisogna guardare avanti». Tutto questo contrasta con imprenditori turistici come Roberto, che sente che da quando c’è internet permanente il tempo gli passa più in fretta, perché è sempre reperibile; o con donne come Silvana o Carmela, che trascorrono le loro giornate guardando YouTube per non sentirsi sole. In termini di Eric Sadin (2016), potremmo forse cominciare a interpretare queste vite non completamente digitalizzate come forme quotidiane, sottili, silenziose di resistenza alla cattura della vita da parte delle tecnologie? Così, proprio come con le costellazioni andine, iniziai a dare forma e senso agli spazi vuoti che restano non colonizzati da questi dispositivi, non per un divario digitale, ma a partire dall’agenzia e dai valori delle persone. Come nella storia di Ursula K. Le Guin su Omelas, loro sanno ciò che si può trovare online e scelgono di non farne parte.
Con questo non intendo riproporre il vecchio binarismo tra vita digitale e vita reale (Grillo, 2008). Al contrario, è proprio perché il digitale ha impregnato così tante sfaccettature dell’esistenza che le pratiche che ne limitano l’integrazione diventano interessanti. Esiste un’ampia letteratura sulle diverse modalità con cui le persone evitano le tecnologie, come recensito in modo esteso da Baumer et al. (2015) e Kaun & Treré (2020). Questi lavori fanno principalmente riferimento a ragioni legate alla sicurezza, all’economia o alla salute mentale per limitare l’uso del digitale.
Qui, invece, cerco di mobilitare la proposta di Gómez-Cruz (2022) per comprendere come il digitale sia diventato vitale attraverso il suo rapporto con la forma della vita: le tecnologie digitali oggi incoraggiano certe modalità di esistenza a discapito di altre. In quanto infrastrutture della vita quotidiana, la loro analisi è inseparabile dalla macro e dalla micropolitica. Dalla pandemia, nelle grandi città abbiamo la sensazione che quasi tutto si sia digitalizzato. Ma mentre le élite dell’industria tecnologica celebrano queste tecnologie come strumenti per il futuro dell’umanità, allo stesso tempo limitano il loro tempo davanti agli schermi (Nieva, 2024). È un privilegio che solo i milionari possono permettersi?

Oppure lasciarlo a loro significherebbe dar loro ragione, cioè accettare che queste tecnologie garantiscano il successo economico, mentre il resto del mondo dovrebbe usarne ogni secondo della propria vita per sfruttarle in cerca di profitto, come sostiene Arora (2019)?
Ritengo che la capacità di riconoscere e agire criticamente rispetto alle tecnologie digitali non sia esclusiva delle élite come privilegio di “stile di vita”, ma che esistano molteplici forme di resistenza popolare, che si manifestano in scelte quotidiane di privilegiare modi di vivere non completamente saturi del digitale. Prestare attenzione a queste pratiche può permetterci di costruire senso non solo sulle tecnologie in sé, ma anche sui modi in cui possiamo studiarle e relazionarci con esse.
Questo testo è un invito agli studi sociali sui media digitali a guardare avanti ed esplorare con maggiore attenzione tutte quelle circostanze in cui le persone potrebbero, ma scelgono di non entrare in relazione con le tecnologie digitali nella loro vita quotidiana. Questi spazi vuoti tra le luci degli schermi sono anch’essi essenziali per la vita, come le lame negli Andes. In questa costellazione di idee, vite e schermi, è forse ciò che non è illuminato a brillare più forte.
Referencias
Arora, P. (2019). The Next Billion Users. Digital Life Beyond the West. Cambridge, MA & London: Harvard University Press.
Baumer, E. P., Ames, M. G., Burrell, J., Brubaker, J. R., & Dourish, P. (2015). Why study technology non-use?. First Monday, 20(11). https://doi.org/10.5210/fm.v20i11.6310
Bugallo, L. & M. Vilca. (2011). Cuidando el ánimu: salud y enfermedad en el mundo andino (puna y quebrada de Jujuy, Argentina). Nuevo Mundo Mundos Nuevos, Debates [En línea]. Available at: http://nuevomundo.revues.org/61781
Di Tullio, M. (2023). “Un futuro para la Puna de Jujuy: discursos e imaginarios estatales sobre el desarrollo digital”. Revista Publicar, 35 (XXXV): 18-37. Available at: https://publicar.cgantropologia.org.ar/index.php/revista/article/view/454
Di Tullio, M. (2024). “‘Se pasan la pelota’. Disputas estatales por la infraestructura de internet en la Puna de Jujuy (Argentina).” Revista De La Escuela De Antropología, XXXV: 1-27. https://doi.org/10.35305/rea.XXXV.287
Gómez Cruz, E. (2022). Tecnologías vitales. Pensar las culturas digitales desde Latinoamérica. Ciudad de México: Universidad Panamericana, Puertabierta Editores S. A.
Grillo, O. (2008). Internet como un mundo aparte e Internet como parte del mundo. En Cárdenas, M., y Mora, M. (Eds.): Ciberoamérica en Red – Escotomas y fosfenos 2.0. Barcelona: Editorial UOC.
Kaun, A. & Treré, E. (2020) Repression, resistance and lifestyle: charting (dis)connection and activism in times of accelerated capitalism. Social Movement Studies, 19:5-6, 697-715, DOI: 10.1080/14742837.2018.1555752
Monje, D. y Vilte, M. A. (2021). El acceso a internet en zonas de frontera en relación con el sistema audiovisual concentrado. Análisis en las provincias de frontera de Corrientes y Jujuy, Argentina. Revista Latinoamericana de Ciencias de la Comunicación, Vol. 20 (37): 136-153
Nieva, M. (2024). Ciencia ficción capitalista. Cómo los multimillonarios nos salvarán del fin del mundo. Editorial Anagrama: Barcelona.
Sadin, E. (2016). La siliconización del mundo. La irresistible expansión del liberalismo digital. Buenos Aires: Caja Negra Editora.
Wright, P. (2008). Ser-en-el-sueño. Crónicas de historia y vida toba. Buenos Aires: Biblos, Colección Culturalia.
Wright, P. (2022). Reflexiones sobre ontología de la etnografía. Entre la experiencia, el poder y la intersubjetividad. Runa, 42(3): 317-344.
Zuidema, R. T. & G. Urton (1976) La constelación de la Llama en los Andes peruanos. Allpanchis Puthurinqa, IX: 59-119.
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