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Restituire Dignità al Conflitto

  • L'Idiot
  • 3 nov
  • Tempo di lettura: 13 min

Aggiornamento: 6 nov

Restituire Dignità al Conflitto

Il Vuoto

L’Idiot è una piazza, un vuoto da riempire con mille voci differenti.


Abbiamo scelto di partire da qui, da una frase su cui siamo tornati più e più volte. Una frase che custodisce forse l’unica convinzione rimasta intatta da quando questo progetto ha preso forma: ogni pensiero collettivo, se vuole davvero fondarsi, deve nascere da una mancanza condivisa - da un cono d’ombra e di insufficienza che una volta guardato in faccia non può più essere rimosso, ma richiede a gran voce di essere attraversato.

La centralità del vuoto per il nostro percorso non è un vezzo metafisico né un espediente retorico, piuttosto è la presa d’atto di un processo e la scommessa che lo accompagna. Laddove la società tende a colmare ogni assenza con il rumore della produzione e dell’iperstimolazione digitale, L’Idiot vuole riconoscerci la possibilità di un ritorno al rimosso: il riemergere di ciò - e di chi - è stato (o si è) escluso ed eliminato.

È necessario allora chiederci che cosa significhi, oggi, nelle nostre società contemporanee, guardare all’interno di un vuoto. È silenzio angosciante o pulsione creativa? Eclisse dell’essere o la condizione stessa della sua apparizione?

Farsi carico di questa domanda comporta, prima di tutto, assumersi la responsabilità di compiere un atto di coraggio comunitario: affrontare ciò, che per abitudine o paura, abbiamo relegato nell’inconscio collettivo del nostro tempo.

Gli atti del pensiero sono sempre dei tentativi di esplorare un vuoto: quegli spazi mai del tutto riconciliabili che ci separano da ciò che è Altro, e che al tempo stesso ne rendendo possibile la nascita. A nostro giudizio sono perlomeno due i movimenti elementari che attraversano i vuoti dell’esistente: la differenziazione, principio che distingue e mette in forma, gesto che crea contorni e rende abitabile il reale; e l’indefinitezza, riserva generativa del non-ancora, zona franca dove la domanda nasce prima della risposta e il possibile sputa sul già dato. Così, l’incontro tra più soggetti, il sorgere delle domande su ciò che ci circonda, l’arena politica o il dialogo tra l’io e il sé sono tutte manifestazioni di un medesimo rapporto con gli spazi d'assenza.

Ogni pagina che scriviamo è infatti all’origine una voragine. Eppure, tra tutte, le uniche capaci di sopravvivere al tempo sono quelle animate da un pensiero che non esaurisce mai la propria tensione, che continua a riaprirsi - almeno in parte - al vuoto da cui è nato. In esse sopravvive la traccia del mancare, la forza del dubitare e la consapevolezza che ogni costruire conterrà nuovi spazi generativi.

Ogni vuoto è allora uno squarcio che attira energie differenti. È campo di attrazione, spazio in cui le forze— molteplici e superiori a quelle elementari — si incontrano, scontrano e deformano reciprocamente. La domanda, allora, non è soltanto quali di queste forze vorremo che occupassero la dimensione sociale, ma come esse già agiscono, tuttavia inavvertite, nei mille altri vuoti che costellano il mondo contemporaneo - nei corpi, nei linguaggi, nelle istituzioni(reali e digitali), nelle coscienze di ognuno di noi.


Restituire Dignità al Conflitto

L’oggi

È il momento di guardare negli occhi l’apparente contraddizione che segna la nostra epoca: mai come oggi, nello spazio di una sola mente, convivono l’anestesia più passiva e il coinvolgimento più isterico, il disinteresse grigio e la partigianeria che rasenta la fede mistica. Una contraddizione solo apparente, in quanto le une finiscono per nutrire le altre.

Siamo immersi in una stanchezza —un’assenza di forza vitale — che abbiamo imparato a chiamare normalità. Ci sentiamo respinti dalla complessità che la globalizzazione ha introdotto e sopraffatti dalle velocità delle nuove forme di vita e di comunicazione, in cui tutto si muove, muta e si dissolve. La fiducia nei nostri strumenti critici vacilla, si corrode lentamente. Subentra allora un disinteresse che non è semplice apatia, ma una difesa: un modo per preservare il nostro amor proprio.

Ci si ritira dal mondo, si costruiscono piccole roccaforti di sicurezze (insicure) e di gesti ripetuti; si confonde la protezione con la prigionia, la sicurezza con l’inerzia. Desideriamo vite rasserenanti, immuni da ciò che non comprendiamo, da tutto ciò che — là fuori — ci appare ostile, irriducibile, minaccioso. Ma la psiche non dimentica. Le ombre rimosse non scompaiono: si accumulano ai margini del quotidiano e attendono il momento di ritornare. Prima o poi ci raggiungono - attraverso una crisi, una perdita, una parola che incide come una fenditura. Ed è allora che comprendiamo, spesso troppo tardi, che il rifugio che credevamo sicuro era soltanto una forma più sottile di resa.

Le variabili necessarie per analizzare fenomeni così complessi sono intricate e quasi infinite. Ora, però, vogliamo concentrare lo sguardo solo sul rapporto che questi processi intrattengono con i vuoti del mondo politico e digitale.

Nelle nostre società, così come nelle nostre coscienze, è in corso ciò che potremmo chiamare un bombardamento tecnico dei vuoti interiori. Il flusso incessante di informazioni, la velocità delle connessioni, e soprattutto la facilità con cui accumuliamo nuovi stimoli, agiscono sulla psiche come diserbanti: sterilizzano il terreno del pensiero e impediscono la germinazione dell’esperienza critica. Siamo sottoposti a un attacco costante — ­­ inflittoci soprattutto da noi stessi—  che non mira a colpirci nel pieno, ma nei nostri spazi di assenza ; lì dove, un tempo, si formava l’attesa, il dubbio e la riflessione.

Ci ritroviamo così — o almeno questa è l’impressione che stiamo avanzando— prigionieri di due rapporti contrari e tuttavia gemellari, due sintomi di una stessa crisi del sentire.


Da un lato, l’anestesia, ovvero il bisogno crescente di riempire ogni vuoto per sottrarsi alla sua vertigine. Si consuma per non pensare, si scorre per non vedere. È un esercizio collettivo di distrazione, una saturazione che diviene sedazione; una forma nuova e più sottile di alienazione che cancella il movimento vitale del silenzio e la possibilità stessa del raccoglimento.

Dall’altro la polarizzazione: il ritorno del represso sotto forma di eccesso. È un moto più vitale rispetto al precedente, che però, non avendo possibilità di evoluzione si deforma in pura reattività. L’urlo prende il posto della parola, la guerra quello del conflitto e l’identità si consolida in marcatori rigidi, come difesa dalla mancanza. Il riempimento del vuoto, nella polarità, non è distrattivo ma distruttivo: tende a negare la condizione stessa che lo ha generato.

Anestesia e polarizzazione sono due sentenze di una stessa condanna: la paura del vuoto e della sua vitalità. Due meccanismi complementari di sollievo che producono la medesima conseguenza: l’impoverimento della profondità e la perdita della complessità. È questa la sconfitta più grave e svilente del nostro tempo: quella di un mondo che, proprio mentre avrebbe più che mai bisogno di pensiero, ne teme la presenza.


Se la realtà è l’espressione massima delle possibilità, allora la pulsione appiattente che oggi ci attraversa è un attentato a cui ribellarsi. La democrazia — malata, inefficace, perfino detestabile nei suoi limiti — resta, nonostante tutto, il solo sistema capace di riconoscere nella differenza un valore fondante (O è diventato, anche questo, un mito di cui non restano che le parole?)

È l’unico ordine politico che legittima un prospettivismo costitutivo, che fonda la libertà non nell’isolamento interiore ma nell’agire condiviso. È lo spazio prediletto delle pluralità, chiamate a trasformare le contraddizioni in un orizzonte collettivo. Oggi, però, proprio quella pluralità è sotto attacco: considerata un intralcio superfluo dai nostri stessi sistemi democratici.


La polarizzazione è dunque una figlia storpia (non una sorella) della pluralità: la forma più degradata della conflittualità. Si nutre di reazioni, mai di riflessioni. Le piattaforme digitali ne sono il terreno d’elezione: spazi dove il contatto è illusione e la distanza prerogativa. Oggi vediamo moltitudini di tribù che si fronteggiano separate da schermi e algoritmi: la lontananza così diventa un catalizzatore del disprezzo, la scusa per portare la temperatura dello scontro al calor bianco. In assenza di corpo, di prossimità, viene meno la responsabilità dell’odio e il nemico perde il suo volto per diventare un simbolo. Tuttavia, l’accumulo di questi processi finisce sempre per sfociare in forme di violenza concreta (fisica). Perché?

Le tribù contemporanee non sono vere comunità ma meccanismi difensivi: aggregati identitari che garantiscono la protezione del sé attraverso la negazione del diverso. Ciascuna vive nel conforto della propria “coerenza” interna, nel rispecchiamento costante dei propri simili, nel livellamento forzato tra i membri. È un legame narcisistico travestito da solidarietà, un’appartenenza che si regge sulla paura della contaminazione. In questo nuovo paesaggio, l’odio diventa linguaggio, il consenso emozione, la differenza colpa. Dietro questa conflittualità permanente, si nasconde però una verità più profonda: la nostalgia di un legame che non si sa più vivere. L’altro bussa alla nostra porta e noi vogliamo solo urlagli contro.

Il bisogno di affermarsi si traduce nella cancellazione: la disumanizzazione dell’avversario politico, la privazione dei diritti di alcuni gruppi sociali ritenuti ostili e più deboli. Forme di un medesimo impulso che, portato al limite, si manifesta nell’omicidio politico.

La polarizzazione conduce a un conflitto anestetizzante, così come l’anestesia prolungata può sfociare in uno scoppio polarizzante. Nessuna delle due precede necessariamente l’altra: si generano e nutrono a vicenda, come affinità elettive. Sono due movimenti speculari della stessa — patologia? —: entrambi preludono alla forma più atroce di violenza e insieme alla sua manifestazione più grottesca.


L’arena politica appare non più come luogo del dibattito ma come spazio in cui i pensieri discendono necessariamente dall’urgenza di appartenere.

In questo si manifesta una delle grandi nevrosi del nostro tempo: il bisogno di essere riconosciuti è più forte di quello di capire.

La dissoluzione di un orizzonte comune - ovvero di un immaginario implicito e condiviso — mina alla radice la possibilità che le differenze diventino fattori di trasformazione. Senza una base comune, le opinioni diventano segnali identitari; essere in disaccordo equivale a negare l’esistenza stessa dell’altra fazione, a desiderare che scompaia, che le si spari al cuore.

Rimaniamo così, politicamente e culturalmente, ancorati a un presente incapace di generare senso, che ci trascina verso un futuro dove la comunità si dissolve nel suo contrario: una somma di solitudini armate.


Eppure non è la quiete ciò a cui ambiamo: quella la lasciamo agli ingranaggi, agli zombie, agli amanti della rassegnazione. Che si nutrano pure di silenzio e anestesia; noi vogliamo la tensione, l’urto che lacera, il coltello che incide la carne plastificata della nostra società.

Invochiamo a gran voce una conflittualità differente: in cui ci si sporchi, ci si contamini, ci sia contatto reale. Oggi, forse, il gesto più rivoluzionario potrebbe essere questo: guardare in faccia la propria limitatezza (mancanza) e riconoscere nell’Altro (il vuoto) la più grande delle possibilità. Nei suoi dubbi, il seme dei nostri cambiamenti; nelle sue parole, quelle che non avevamo la forza di pronunciare; nell’eco solitario della nostra voce, invece, la più grande delle sconfitte. Siamo lontani dal proporre un galateo della tolleranza, non è il buonismo d’accatto che ci anima. È il bisogno. La febbre. La certezza che senza urto non ci sia vita, né senza attrito cambiamento. Che tutto ciò che è puro non è mai nato. Mentre tutto ciò che è reale profuma di meticcio, di sporco, di contaminato.


Un passo avanti, due indietro: il tempo della decostruzione atomistica è finito. Di fronte a noi neanche più macerie, solo una nube velenosa, esalata dai detriti di questa parcellizzazione interminabile. Non vediamo, non sentiamo, non siamo più in grado neppure di capirci. Vediamo tutta la ricchezza del reale ridursi al mero individuo che, fiaccato e alla ricerca d’appartenenza, appassisce nella solitudine luminosa del suo schermo. Dobbiamo ricostruire. Ma come?

Apertura di nuovi orizzonti, radicamento nella realtà, necessità di trasformazione. Per noi è chiaro: di tutte le caratteristiche del reale, è nell’imprevedibile, nella contraddittorietà e nell’inafferrabilità che la vita emerge con più insistenza.Non ve lo abbiamo mai nascosto: amiamo la vita, non una sua simulazione:


Ambire a una cultura vivificante, anarchica, rivoluzionaria! Erudizione che diventa vita. Pensiero che si fa azione. Oggi tutto è asfissia! La cultura o è libera o non è.


La pluralità è il respiro stesso del reale. Una cultura che voglia dirsi vitale quindi non può permettersi di sopprimere le differenze, piuttosto ha il bisogno di incendiarle: mescolare i dolori, le passioni febbrili, le idee rivoluzionarie. Farne il collante comunitario per eccellenza.


Restituire Dignità al Conflitto

Dunque?

Prima condizione: Creare un terreno che estragga forza dalla differenza. Stabilire un rapporto positivo e di apertura nei confronti dei vuoti.

Da qui la dicotomia:

1.     Rivoltarsi contro la frammentazione e le false pluralità. Smascherare le echo chamber digitali, i safe space polarizzanti. Delegittimarli.

2.     Costruire spazi di pluralità propulsiva. Appropiarsi delle alternative, nuove camere di conflittualità generativa. Centri di unità plurale.


Un conflitto distruttivo – o polarizzante – nasce da una doppia negazione del vuoto. La pluralità viene oggi percepita come minaccia; l’individuo, convinto della propria unicità (e unità), risponde attraverso l’omologazione e il soffocamento di ogni vuoto interno. Identità e pensiero si serrano in marcatori impermeabili al dubbio — scintille spente nel metallo della paura. Dall’altro lato, lo stesso timore si proietta esternamente. Il polarizzato ha bisogno che il vuoto resti fuori: gli servono distanza dal nemico, mura alte e fortificazioni. È un movimento consequenziale: chi nega i propri spazi interni, aspirando alla compattezza indissolubile del Sé, finisce per negare all’Altro ogni possibilità di ingresso, e dunque a volerlo lontano in quanto incomprensibile. In ultima analisi, la polarizzazione è il tentativo di piegare il mondo a un’unica voce: la propria — speciale e inimitabile.

 

Restituire dignità al conflitto significa voler affondare le mani nel motore morente della nostra cultura, costringerlo a sputare scintille e lanciarlo contro la vita come un cavallo ubriaco.  Implica riappropriarsi di un rapporto esaltante con il vuoto; abbracciare la pluralità per scoprire quanto è grande ciò che ci unisce e quanto è fecondo ciò che ci separa.


Ma cosa c’entrano le echo chambers, queste scatole chiuse piene di polvere e sbadigli? Questi acquari sempre più vuoti: triste presagio delle nostre comunità morenti… Diciamolo: anche L’Idiot è, a suo modo, un’echo chamber. Parlare delle camere d’eco —chiariamo—non significa arrivare al cuore del problema, ma farne un referente privilegiato per gli altri vuoti di questo mondo. Siamo difronte a una questione di vita o di muffa: possiamo partorire un centro di pluralità, una camera di conflittualità generativa; oppure regalarci l’ennesimo safe space.


Restituire Dignità al Conflitto

 

Che fare? 

Di fronte alle catene dei safe space, all’esclusione del diverso e al crogiolamento in sicurezze da sonnambuli con la museruola, noi possiamo proporre solo la nostra ossessione: fare a cazzotti. Non essere più protetti ma feriti nello scontro dialettico.

Rapinare, Rapinarsi. Spogliare il prossimo della sua integrità è il nuovo sesso del XXI secolo. Espropriarsi, Consegnarsi. Offrire il proprio timore è Atto di creazione, di fiducia, di forza.

Ferita o nuova prospettiva? Stessa cosa. Qualcosa che apre, che trascina lo sguardo giù, in profondità, nella complessità.

La nostra più grande paura? Diventare un salottino borghese: putrido, immobile, presuntuoso. Sepolto sotto il peso delle proprie certezze, l’inattività e il risentimento.


Ai confini definiti e asettici delle camere d’eco, noi contrapponiamo quelli permeabili, porosi come ogni terreno vivo. Alla chiusura in sé stessi, all’irrigidimento sclerotico delle identità in marcatori precisi—riconoscibili, ridicoli come etichette da supermercato… noi lanciamo un banale antidoto: l’aggregazione della forza centrifuga a quella centripeta.

Allontanamento dal centro, apertura verso l’esterno. Desiderio latente, ormai confessato, di autodistruggere L’Idiot stesso. Di addentrarci nei nostri interstizi; di dubitare della nostra identità e, solo grazie a questo, continuare a costruirne una nuova. L’idiota è colui che dubita: che non si conosce fino in fondo, e proprio per questo si lancia nella mischia.


La MISCHIA la mischia! L’Idiot ama la mischia!

Di bestemmie lanciate, di bottiglie sudate. Di polemiche bagnate dalle piogge d’autunno. Dei corpi agitati e accovacciati sui sanpietrini, lì dove le pozzanghere riflettono cieli e filosofia.


Ma non è tutto:

 

Seconda condizione: Fuggire dai social. Supplicare per il vostro aiuto, affinché le idee non muoiano nell’apatia degli schermi e nell’autoreferenzialità.

 

Riempiteci di critiche, dubbi e illazioni. Abbiamo bisogno di voi per mettere alla prova le nostre idee, le vostre, quelle dei santi e dei maestri del passato. Crivellateci a colpi di pensiero, oppure a pugni, se ne avete la forza…


“Ma cosa state dicendo?” – direte, se animati dal buon senso.

In effetti, uno sguardo attento noterebbe subito come le differenze tra le camere d’eco e i centri di pluralità - tra il conflitto che genera e quello che distrugge- non si trovino tanto nelle loro architetture quanto nell’atteggiamento che le mette in moto. Sì, uno sguardo attento scorgerebbe senza difficoltà che finora si è parlato soprattutto di posture.

Ridurre tutto a una questione di atteggiamento davanti ai vuoti… basta? No, le variabili per analizzare questi fenomeni sono numerose e di natura diversa da quelle che abbiamo evocato.Eppure, liquidare così il nostro discorso significa non cogliere ciò che ci stiamo giocando. Il precipizio è più vicino di quanto siamo disposti ad ammettere, l’alienazione più pervasiva di quanto vogliamo riconoscere. Le idee di un futuro diverso inaccessibili, costretti come siamo in una pienezza che ci costringe all’immediatezza permanente.


Comprendere il ruolo e la dimensione privilegiata della conflittualità significa interrogarsi sugli esiti possibili del nostro futuro. Per noi, oggi, restituire dignità al conflitto vuol dire almeno due cose. Anzitutto assumersi il rischio, in un mondo saturo di violenza di non ridursi a una proposta puramente reattiva, al semplice grido: “No alla violenza!”.

Atteggiamento non solo dimostratosi inutile ma anche irrealistico.  Al contempo, nella consapevolezza della necessità degli istinti selvaggi che abitano la vita, si tratta di porsi alla ricerca di un limite: non in solitudine, ma comunitariamente. Di nuovo, la questione diventa una scelta tra la vita e la muffa —o forse, questa volta, tra la vita e la morte. Ci sentiamo difronte a un bivio: chiusura o apertura? Dominio o esaltazione?  Da un lato la vita procederà a incatenarsi e a stabilizzarsi in una schiavitù senza fine; dall’altro non soffierà soltanto l’aria libera, ma un vento di burrasca.Da un lato la cultura verrà spezzata— nella semplificazione e nell’anestesia — per fare spazio alla forza brutale e ai totalitarismi; dall’altro la forza e la violenza resteranno tragicamente votate al fascino e alla potenza della cultura.


Terza condizione: Non tutte le azioni generano vita. Non tutte le parole portano con sé lo stesso grado di coraggio.Il ruolo del pensiero è quello di essere il più pericoloso tra i mestieri. Quello di accettare la trasformazione nonostante i dubbi, la costruzione con la certezza delle ricadute. Quando ogni passo si scaglia su un pavimento che cede, e ogni verbo diventa un sussurro nel silenzio a cui condanna il mondo, allora Si! L’agire diventa rivolta, e la cultura si fa canale ed emblema di quegli istinti aggressivi ed esaltanti che nel loro tumulto sono la vita stessa.

 

Affinché questi pensieri non restino parole al vento, occorre rivendicare un appiglio, uno spazio concreto che li ancori alla realtà. Devono sporcarsi nella possibilità di penetrare l’immaginario politico.

Concludiamo da dove abbiamo iniziato. Oggi la politica è la prima responsabile della trasformazione del conflitto in coreografia: gesto simbolico sacrificato sull’altare del consenso, o peggio, giocattolo comunicativo per gonfiare odi a fini consensuali. La complessità si smussa e il pensiero si addomestica. Al contempo l’informazione odierna, uno scarabocchio culturale, riduce la diversità del reale a un avvilente gioco di bandierine. I partigiani senza resistenza—giornalisti, politici, intellettuali —soffocano il dibattito alimentando una sterile dialettica dell’inimicizia. Ripartiamo da un percorso d’impegno e partecipazione, che abbia come credo la necessità di trasformare il nemico in avversario, in fratello di duelli. Scommessa nella pluralità e riscoperta dell’orizzonte comune. La crescita collettiva è un prodotto spontaneo del confronto autentico delle differenze. L’antidoto alla guerra non passa attraverso la soppressione di ogni istinto di lotta, ma per la sua trasformazione e sublimazione nello scontro creativo.

 

Restituire Dignità al Conflitto

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Questo testo segna l’inizio del nostro sviluppo teorico, il primo passo verso il Novizio. Abbiamo iniziato a chiederci il perché e già ci prepariamo al come.

Vi chiediamo di accompagnarci: la piazza è grande, e le nostre orecchie hanno ancora fame.


Scritto da:

Federico Grassi- Gianmaria D'Alessandro- Federico Pintus ,

insieme a tutto L'idiot digital. 

Roma, 2025


Restituire Dignità al Conflitto

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