Il Faro
- Ignacio Ferreira
- 28 giu
- Tempo di lettura: 5 min

“Vi rendete conto?
Oggi Roma ha detto no a questi fascisti.”
La storia si fa presente nei nostri corpi attraverso la memoria che la nostra pelle custodisce. È così: né i decenni né le migliaia di chilometri possono cancellare certi fantasmi.
Verso la fine di un evento che organizza con ansiosa passione, Ángelo ci parla del terrore che ha segnato la sua infanzia nella Buenos Aires degli anni ’70 e ’80. Ancora oggi rabbrividisce nel rievocare la paura di allora quando bastava giocare a pallone per strada con gli amici per diventare bersaglio della brutalità della soldataglia che governava il Paese con la forza. Sul suo corpo sono rimaste le tracce di quegli anni - un curriculum di tutto rispetto -: detenzione e tortura in un commissariato, una finta fucilazione in pieno giorno, obbligo di silenzio per 24 ore.
Dicono i manuali di storia che il 24 marzo 1976 ebbe inizio in Argentina una dittatura genocida e che questa durò sette anni. Vero. Ma alcune delle storie agghiaccianti che ci sono state appena narrate accaddero dopo il ritorno della democrazia nel 1983. Forse è proprio a causa di questa ineludibile continuità di violenza contro tutto ciò che è popolare, vivo, incontrollabile, radicato nella strada, che possiamo comprendere il perché ogni anno a marzo, in Argentina, si ripeta una mobilitazione di popolo forte e partecipata come quella a cui siamo ormai abituati. E’ evidente che si continua a combattere una battaglia per attribuire senso a una intera epoca, per una narrazione che è ancora attuale.
È tale la volontà di forze antiche di continuare a esistere, che bastano pochi minuti, in qualsiasi conversazione, per arrivare a provare una delle sensazioni oggi dominanti: perplessità, smarrimento. Smarrimento di fronte a tanta crudeltà. Dalla perplessità del presente al terrore della dittatura ci sono solo pochi, ma terribili, passi. E questo è un punto da prendere sul serio.
E’ smarrito colui che si ritrova, all’improvviso, privo di qualsiasi coordinata, di fronte a una realtà che appare quasi incredibile. E sebbene non manchino gli indignati, come spiegare tanta immobilità? Perché la cultura dell’indignazione non si trasforma in movimento? Perché non si moltiplicano espressioni culturali innovative, progetti politici capaci di commuovere, proposte che disorientano e affascinano? Dove è la forza che genera gli eroi? Per fortuna, sembra che stiamo trovando un primo antidoto al nostro smarrimento: forse non possiamo capire tutto ciò che accade davanti ai nostri occhi, ma possiamo cominciare a spiegare ciò che accade dentro di noi.
Quel giorno di marzo ci trovavamo a Roma, per fortuna o per caso, e appena abbiamo saputo dell’iniziativa del 24 al Gianicolo, l’appuntamento per noi è diventato una certezza e una necessità. Non erano poche le domande che ci agitavano sul cosa sarebbe successo, ma l’evento è stato semplicemente straordinario, più di quanto avessimo potuto immaginare.
Foto commemorative, oratori che in patria o in esilio hanno combattuto il terrorismo di Stato, figli di militanti desaparecidos, adesioni di organizzazioni civili come il club River Plate, abitanti di Trastevere che ci dimostrano la loro empatia - che nel popolo italiano non è mai venuta meno - e si avvicinano per ascoltare e partecipare. Una presenza calorosa e commovente.
Alla fine della giornata, Ángelo guarda il faro del Gianicolo, ora illuminato con il tricolore – acceso pochi minuti prima in omaggio alle vittime del terrorismo di Stato – assapora la luna argentata e velata apparsa a portarci buoni auspici, e si concede persino il lusso di svelarmi una sua verità. Il suo è il volto di chi porta con sé una rabbia accumulata in troppi anni di sottomissione alla prepotenza idiota degli uomini in divisa. Queste cicatrici, per guarire, hanno dovuto trovare un senso: a volte, bisogna fare qualcosa perché non possiamo abituarci a vivere con la sensazione di una giustizia incompiuta.

Io, che al contrario della lumaca, mi chiudo in spirali di dubbi su cosa fare e come farlo, capisco che si tratta, essenzialmente, di farci carico di ciò che ci accade. Quando Ángelo dà voce al disagio che lo abita, passa all’azione e diventa soggetto di una rivincita; e quando questo avviene attraverso un intervento collettivo, nasce qualcosa di ancora più potente: una forza politica, nel suo senso più vivo.
Qui e altrove è evidente il malessere che scorre sotterraneo in ogni nostro giorno: guarda in faccia la persona accanto a te e, con la giusta sensibilità, lo vedrai. Al tempo stesso, il Sistema ha già suggerito un percorso per quel dolore: portalo a casa, seppelliscilo, perché tutto il benessere e il malessere che ci attraversano sono solo una nostra responsabilità.
Ogni volta però che la sofferenza individuale non viene patologizzata, si ottiene una piccola vittoria contro la logica iper-individualista. E ogni volta che ciò sfocia in un incontro con altri corpi, si entra nel terreno del contro-potere politico.
Non furono proprio questo quelle Madri che, senza alcuna tradizione politica, andarono in piazza a chiedere conto dei loro figli a una dittatura assassina?
Quello che è accaduto quel pomeriggio su un colle romano è stato meraviglioso: è bastato che uno solo suggerisse l’incontro perché uno sciame di inquieti si avvicinasse. Quel pomeriggio abbiamo capito: gli incontri da proporre sono tanti ma, al tempo stesso, non bastano mai.
Adesso, in questa Argentina intollerabilmente crudele, cerchiamo di fare lo stesso. Con vecchi compagni e compagne abbiamo ripreso a vederci, leggere, discutere. Forse è questo ritrovarci che ci permette di guardare negli occhi il terrore e scrollarci di dosso il gelo dello smarrimento. Non è un caso che in questi gruppi di discussione e di pensiero siano germogliati amori ed amicizie: non è forse l’amicizia l’unione perfetta per divenire resistenza? Intuiamo che per trasformare un’amicizia disimpegnata in resistenza etica, è necessario legarla a solidi codici di comunità, di cura e solidarietà.
Le inquietudini, in questi gruppi, si diffondono in modo rizomatico, ramificato e incontrollabile. Probabilmente perché, dalla pandemia in poi, ci sono accadute troppe cose, cose a cui ancora non riusciamo dare un nome. Ma è proprio l’esperienza del ritrovarsi, il tentativo di comprendere assieme ciò che ci sta accadendo, il desiderio di intervenire collettivamente, a generare risposte che nemmeno la più profonda solitudine di pensiero saprebbe offrire. E questa è, ancora una volta, la forza dell’affetto che solo i corpi sanno dare. La fantasia dell’auto-realizzazione individuale e solitaria – figlia della pandemia - comincia a mostrare le sue crepe anche se i mostri generati da quel tempo sono ancora vivi.
Come dice l’Eternauta: nessuno si trasforma solo.
Sono molte le forze oscure che ci tirano verso il basso e minacciano di farci affondare. Gli ultimi anni hanno profondamente alterato il nostro rapporto con l’altro, spingendolo verso la distanza e lo straniamento. Su questa sensazione di spaesamento hanno fatto presa i discorsi di odio che danno forma ai fascismi del XXI secolo. La frammentazione e il terrore agiscono come blocchi efficaci contro l’empatia e la solidarietà: e la sensibilità – quella affascinante virtù che ci permette di leggere il non detto nel gesto dell’altro – sembra essere profondamente assopita. Abbiamo davanti due strade: chiuderci in casa e ingoiare il dolore fra social e serie TV, oppure ritrovarci con gli altri e cercare assieme il bandolo della matassa per identificare la radice sistemica del malessere e – con essa – una via di uscita collettiva.
Abbiamo persone come Ángelo, Norita, Hebe. E abbiamo noi stessi.
Il silenzio può essere ingannevole: è assoluto e dominante, ma a volte basta una sola voce per spezzarlo. Toccherà allora assumerci le nostre responsabilità di fronte a tanta crudeltà: è il momento di chiederci se tutto ciò è davvero accettabile o se è giunto il tempo di farsi avanti. Forse basta accendere un faro perché molti escano dallo smarrimento; forse scopriremo che ciò che circolava tra noi non era terrore, ma semplicemente silenzio.
Di certo in due sarà più facile romperlo.
“Oggi Roma ha detto no a questi fascisti.
Abbiamo acceso il faro!”

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