Cronaca di un suicidio annunciato.
- Margherita
- 17 giu
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 26 lug

Un’impresa temeraria
Cari amici della sinistra, del sindacato, dei comitati promotori, cosa vi passava per la testa quando vi siete lanciati in questa impresa temeraria e velleitaria? Cosa avevate bevuto, fumato, sognato? In che mondo vivete? Che polso avete degli umori reali dei cittadini giovani o vecchi che siano?
Perché, perché ci avete trascinato in questa avventura destinata all’autodistruzione coprendoci – e coprendovi- di ridicolo? Una avventura che rischia conseguenze persino più catastrofiche della disfatta della nazionale italiana con la Norvegia. Si cercano ora, soprattutto nel PD (immagino), capri espiatori, allenatori da esonerare, leader da coprire di meritati vituperi.
La matematica non è un’opinione
Cominciamo dai numeri: la matematica, si sa, non è un’opinione soprattutto se parliamo di referendum abrogativi, se parliamo di quorum che, come ci hanno insegnato all’ora di educazione civica, impone che almeno il 50% + 1 degli aventi diritto si rechi alle urne. La bellezza di 25.650.690 elettori.
E come pensavate di raggiungerlo questo benedetto quorum quando 10 su 18 referendum abrogativi celebrati nella nostra repubblica prima di questo ultimo e sciaguratissimo, lo avevano già mancato? Quando negli ultimi 30 anni solo 2 su 10 sono riusciti a superare la fatidica soglia, e per un soffio? E allora, la gente ancora votava. Sempre meno, va detto, ma votava.
Gli esperti numerologi che abbondano nelle vostre strutture, i sondaggisti – maghi della previsione - che avrete di certo interpellato, non ve lo hanno spiegato? La partecipazione a un referendum, fosse anche sul tema più appassionante e sentito, è sempre inferiore rispetto alle elezioni politiche. Nei primi referendum dell’era repubblicana che parlavano di divorzio, aborto, leggi speciali, finanziamento pubblico ai partiti - argomenti non caldi ma caldissimi - la differenza media di affluenza rispetto alle Politiche più vicine, era di circa 8 punti a svantaggio del referendum. Poi, con il tempo, la forbice si è ampliata, e, dal 1995 a oggi, è, in media, di -40 punti percentuali.
Ma ipotizziamo di essere ottimisti: immaginiamo di tornare ai bei tempi del divorzio e dell’aborto; assumiamo un calo fisiologico dell’affluenza, dettato dalla natura della consultazione, pari a un 8%. Dato che alle ultime politiche la partecipazione ha raggiunto a malapena il 64%, iniziamo a sottrarre: 63.91% - 8% = 55,91% pari a 28.682.600 schede nell’urna.
Il peso del voto estero
E questo, solo in Italia. Perché, come ben sappiamo, al quorum concorrono anche gli italiani all’estero. Sì, i nostri confratelli sparsi per il mondo, quelli che in maggioranza hanno un lontano trisavolo italiano nell’albero genealogico e che dell’Italia non sanno nulla e nulla vogliono sapere, ma che posseggono il loro bel passaporto e hanno diritto alla loro scheda elettorale.
Gli italiani all’estero, dal 2003, votano per i referendum e, anno dopo anno, aumentano. Quindi, il loro voto - o meglio, il loro non voto - pesa sempre di più. Nel 2003, gli italiani all’estero erano 2.300.000, pari a meno del 5% del totale dell’elettorato; oggi, grazie alla solerzia dei consolati che si sono trasformati in inefficienti passaportifici, sono più che raddoppiati, hanno superato 5.500.000 e, visto che, nel frattempo, la popolazione residente in Italia è ridotta, valgono l’11% dell’intero corpus elettorale.
E sapete quanto votano gli italiani all’estero? Poco, molto poco. Praticamente mai sopra il 30%. Ai referendum poi assai meno, una media del 20% scarso. Prendiamo per buono questo 20% e sommiamo. Agli elettori italiani aggiungiamo 1.100.000 volenterosi e valenti votanti all’estero: otterremo un totale 26.706.337 voti, equivalenti al 52.06% degli aventi diritto. Un potenziale fisiologico appena due punti sopra il quorum necessario. E non è finita qui.
L’effetto degli over 80
Già, perché l’Italia è un paese di vecchi. E i vecchi, quelli con più di 80 anni, votano meno. Non perché non vogliano – ché i vecchi hanno in genere più senso civico dei giovani – ma, semplicemente perché non possono: sono malati, hanno la demenza senile, l’Alzheimer, si muovono male e, obtorto collo, restano a casa. Lo dicono le fonti, lo dicono gli studi, è un dato.
Si stima che, in media, gli over 80 abbiamo una percentuale di partecipazione al voto inferiore di 10-15 punti rispetto a quella totale. Ma che succede in Italia? Succede che la vita si allunga, le nascite crollano e gli anziani aumentano. Nel 1974, erano circa 1 milione, il 2.7% degli elettori, nel 2025 sono poco meno di 5 milioni, pari all’8% del corpo elettorale.
Il loro non voto vale altri 81.000 elettori in meno rispetto alle ultime Politiche e questo, in un gioco all’ultimo voto como quello del referendum, ha un suo peso. Significa che i nostri votanti teorici sono adesso scesi a 26.625.637 pari al 51.9% di partecipazione massima ipotetica.
1.9 punti percentuali sopra il quorum. Un palpito, un soffio un nulla.
Azzardo o superbia?
La partita è iniziata così. Con una mobilitazione elettorale massima ipotizzabile poco sopra il quorum necessario per decretare la validità del referendum. Vogliamo parlare di azzardo? Vogliamo parlare incoscienza? Si tratta di masochismo, di voluttà di sconfitta? O magari di cieca superbia?
Continuiamo a contare. E a sottrarre.
Su quale elettorato certo potevano contare i promotori? Non saprei dire con esattezza, ma immaginiamo che tutti gli elettori delle opposizioni - PD, 5 Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra, Più Europa e persino i riottosissimi di Italia Viva e Azione - si fossero recati disciplinatamente alle urne. Di quante teste staremmo parlando?
Per calcolarle, prendiamo l’ultimo sondaggio Ipsos disponibile, risalente al 29 maggio. Secondo l’istituto, i partiti sopra elencati valgono oggi, il 49,3% (per la cronaca, valgono esattamente quanto nel 2022, con qualche rimescolamento interno, ma senza che un misero “zero virgola” sia stato strappato agli avversari). Bene, trasformiamo questo dato in numero di voti: moltiplichiamo i votanti teorici massimi per 49,3%. Il risultato è 13.134.138 voti, che equivalgono a una affluenza del 25,6%. E il quorum è bello che andato.
Ma attenzione! I furbi promotori ci dicono che, se i SI saranno superiori ai 13 milioni, questo sarà già un grande successo. Grandi ambizioni iniziali che diventano miseri calcoli di convenienza, senza nemmeno troppo fondamento. L’asticella si abbassa ancora ma non basta. Perché la debacle è gigantesca, rovinosa, vergognosa: alle urne si sono recate circa 14 milioni di persone, ma secondo i primi conteggi, i SI non hanno raggiunto nemmeno quei 13 milioni indicati come obiettivo minimo.
Ha votato poco più del 30% degli aventi diritto in Italia.; vedremo di quanto si abbasserà il dato percentuale e aumenterà quello assoluto con il conteggio degli elettori all’estero. La quota di voti strappati all’astensionismo, predicato dalla maggioranza, equivale, per ora, al 4%. Nessuna regione ha superato il quorum. Al sud si sono toccati minimi storici di partecipazione. Su 8.000 comuni forse in una decina i votanti hanno raggiunto la soglia del 50%.
Chi ve lo ha fatto fare. Chi ce lo ha fatto fare.

I quattro (falliti) obiettivi del referendum
Quali erano, esattamente, gli obiettivi che si prefiggevano i sostenitori del SI?
Io ne ho in mente 4.
Obiettivo n. 1: raggiungere il quorum. Flop assoluto, previsto, annunciato. Che il quorum non sarebbe stato superato si sapeva. Era impossibile pensare ad uno spostamento radicale dell’elettorato, a una vampata improvvisa di senso civico, a un coinvolgimento trasversale di forze politiche, sociali e culturali che sovvertisse i pronostici, ignorando le indicazioni di voto della destra tutta schierata - sfacciatamente ma legittimamente - per l’astensione.
Per fare il miracolo – come avvenne con il referendum sull’acqua pubblica del 2011 – ci sarebbe voluta una narrazione popolare potentissima che, stavolta, è mancata del tutto. I 5 quesiti, a bassa intensità emotiva, non hanno aiutato. La scarsa credibilità dell’opposizione, nemmeno.
Obiettivo n. 2: mettere pressione al governo mobilitando, comunque, una buona partecipazione trasversale e raggiungendo percentuali di voto significative. Flop fragoroso, considerando che questo era, probabilmente, l’obiettivo principale.
La gente non si è scaldata, il governo ora esulta e maramaldeggia, consegnando alla stampa e alle reti sociali messaggi gongolanti e sprezzanti infarciti di menzogne e di insulti mal celati.
Non oso nemmeno immaginare i titoli della stampa amica della destra. Mi si stringe il cuore ascoltando le dichiarazioni balbettanti degli sconfitti.
Obiettivo n. 3: allargare la base elettorale in termini assoluti e percentuali. Nel 2022, i partiti di opposizione, avevano raccolto poco più di 13.800.000 voti, il 49,33% dei consensi.
Praticamente nulla è cambiato nel 2025. L’analisi dei flussi ce lo confermerà, ma, verosimilmente, il blocco di centrosinistra è andato alle urne compatto. Non un elettore in meno, ma, nemmeno uno in più conquistato. Terzo obiettivo e terzo flop.
È stato celebrato un referendum per dar modo alle opposizioni di contarsi? Di consumare faide interne e regolamenti di conti? È questa la narrazione che sta passando sui media e fra i (pochi ormai) cultori della materia. Quindi, al flop si aggiunge in questo caso anche l’effetto boomerang.
Obiettivo n. 4: mettere al centro dell’agenda politica lavoro e cittadinanza. Finalmente, e residualmente, si entra nel merito dei quesiti. Perché l’obiettivo venisse raggiunto, sarebbe stato necessario ottenere - a fronte di una bassissima partecipazione – almeno un risultato schiacciante e bulgaro a favore del SI. Ebbene: quarto flop.
La vittoria schiacciante del SI non si è materializzata; i quesiti sul lavoro hanno raccolto un 12% di NO, quello sulla cittadinanza ha registrato un misero – date le circostanze – 65% di SI. Un autogol clamoroso, un fallimento consumato sulla pelle dei tanti probi e laboriosi aspiranti cittadini italiani che vedono allontanarsi sine die la riforma della legge sulla cittadinanza.
Una cittadinanza che, vale la pena ricordarlo, non si regala oggi e non sarebbe stata regalata domani anche qualora si fosse riusciti a modificare la legge. Perché per presentare la domanda, oltre a risiedere regolarmente in Italia da 5 anni (oggi 10), si deve dimostrare di possedere un reddito, di saper parlare l’italiano, di non avere carichi penali, eccetera, eccetera. E il processo di valutazione dei requisiti non ha esito scontato e dura 2, 3, 4 o anche 5 anni. A meno che tu non sia un calciatore in odore di nazionale, un campione di atletica o non ti chiami Javier Milei.
Lavoro: un simbolo svuotato
Liquidata la cittadinanza come tema divisivo - anche a sinistra - restano le questioni poste in materia di lavoro. Non è questa la sede per addentrarci in una disanima approfondita, ma alcune riflessioni sono doverose.
Perché l’articolo 18, la cui difesa nel 2002 aveva portato in piazza 3 milioni di persone costringendo il governo dell’epoca a una precipitosa retromarcia, non scalda più i cuori della sinistra e - men che meno - della destra?
Siamo tutti anestetizzati, ipnotizzati, indifferenti, tristi, rabbiosi, imprigionati nelle nostre bolle social? Ma forse, e dico forse, abbiamo votato 5 SI di buon mattino per tenere su gli animi e mantenere viva la speranza di un illusorio quorum, pur sapendo che l’articolo 18 è il simbolo di un lavoro che è diventato minoritario. Perché guarda al passato più che al futuro. Perché i bisogni, le aspirazioni, i sogni sono cambiati. O forse perché, semplicemente, le ingiustizie e le frustrazioni sono tali e tante che il reintegro per un licenziamento senza giusta causa appare l’ultimo dei problemi, e non il principale.
Il giorno dopo
Cosa resta? Poche pagine chiare. Troppe, maledette pagine scure.
Una sconfitta servita al governo su un piatto d’argento.
Una stucchevole, vomitevole retorica che parla di una sinistra incosciente, che - per capriccio, ambizioni personali, vecchi rancori, desiderio di contarsi - ha trascinato l’Italia in una inutile e costosa pagliacciata. Una pagliacciata costata al “Popolo” ben 300 milioni di euro (detto da chi spende il triplo per tenere quattro disgraziati in un lager in Albania. Ah, ironia del destino…).
Resta un senso di impotenza che lascia in bocca un sapore acre.
Resta la sconfitta pesante che ti toglie la voglia di continuare a lottare.
Resta la tentazione di dire “Ma sì, avete vinto voi. Il Paese è vostro fatene ciò che più vi piace”
Una palude, uno stato di polizia, uno stato etico. Il paradiso del si salvi chi può, il regno dell’individualismo sfrenato. Un posto dove le tasse le pagano solo i pensionati e i ceti medi mentre al resto, sono condonate, anzi no, peggio, diventano “pizzo di Stato”. Un posto in cui lo straniero è gradito solo come lavoratore sottopagato ma mai come cittadino. Un posto in cui si cura solo chi ha i soldi per farlo, dove le famiglie – tanto care al governo – sono abbandonate e oberate dalla cura dei più fragili.
Insomma, un paese di merda.”

Referendum 2025. Cronaca di un suicidio annunciato.






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