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Sogno di un dialogo tra sessi

Aggiornamento: 26 lug

Idiot Digital

C’è qualcosa, oggi, che sembra essersi incrinato nel discorso pubblico sul genere. 

L’Italia negli ultimi anni ha assistito ad una drammatica escalation: i femminicidi sono diventati eventi tragicamente ricorrenti, impressi nella coscienza collettiva come simboli crudi di una frattura profonda nei rapporti tra uomini e donne. Il caso di Gisèle Pelicot, in Francia, ha aggiunto una dimensione transnazionale al dibattito, mostrando quanto sia difficile per le istituzioni e per l’opinione pubblica riconoscere come sistematica (e non eccezionale)  la violenza maschile. 

In questo clima, la percezione dominante  sui social sembra si essere quella di un conflitto crescente tra i sessi: una guerra fredda, o forse caldissima, che si combatte ogni giorno nei commenti social, nei video virali che ridicolizzano o demonizzano l’altro sesso. Da una parte, i movimenti femministi e le loro battaglie legittime, sempre più forti nel denunciare la cultura patriarcale e le sue derive violente. Dall’altra, un riflesso difensivo e identitario maschile che oscilla tra il vittimismo, il sarcasmo, il becero e il rifiuto del confronto, degenerando in quel mondo nascosto ma ormai sempre più visibile chiamato “manosfera”.

Eppure in mezzo a queste due fazioni ci sono uomini che non si riconoscono né nel disimpegno né nella reazione rabbiosa, che in silenzio o con fatica, cercano un modo per partecipare attivamente. Eppure si trovano spesso sospesi in un limbo di diffidenza: da un lato vengono accusati da altri uomini di voler compiacere le donne, dall’altro vengono guardati con sospetto da alcune attiviste femministe che temono intrusioni o appropriazioni. 

Ma da dove deriva questa polarizzazione? 


Per comprendere il clima teso e accusatorio che oggi domina il discorso sui generi, bisogna partire da una constatazione semplice ma spesso trascurata: le identità di genere non sono statiche, ma profondamente politicizzate, dunque sono profondamente influenzate dal contesto di quel preciso momento storico. 


La mascolinità, in particolare, ad oggi è sempre più in discussione, ed anziché generare una riflessione collettiva, ha in molti casi prodotto irrigidimento, paura, un istinto verso la trincerazione. 


Ad oggi qualsiasi discorso sull’uguaglianza, per quanto fondato, viene percepito come una sottrazione di potere: se le donne avanzano, allora gli uomini perdono terreno: si instaura una logica perversa simile ad un gioco a somma zero che alimenta  la diffidenza e l’ostilità. Non si tratta solamente di dati, ma di percezioni individuali: l’uguaglianza viene vissuta come una perdita simbolica, e dunque identitaria.


A questa percezione si aggiunge un altro ostacolo meno visibile ma ancora più profondo: la difficoltà maschile a riconoscere il privilegio come tale. Quando si è cresciuti in una struttura che normalizza la propria posizione dominante, è naturale scambiarla per meritocratica. Non si vede il vantaggio poiché lo si vive da sempre. Così, ogni tentativo di denunciare un’ingiustizia viene letto come accusa personale o attacco generalizzato.


Il risultato è che molti uomini non si percepiscono come parte del problema e quindi non si sentono coinvolti nella soluzione. Oppure, peggio, rifiutano la cornice stessa della discussione, definendo parole come “patriarcato”, “sessismo”, “privilegio” delle esagerazioni ideologiche.


A rendere il quadro più complesso c’è la precarietà dell’identità maschile contemporanea: in una società in cui i ruoli si ridefiniscono, “il maschile” non ha più uno status garantito e dunque, laddove manca una nuova lettura condivisa per dirsi uomini senza oppressione, l’insicurezza identitaria si trasforma in reazione difensiva. Ecco allora il sarcasmo, la caricatura del femminismo, il rifugio nei miti della virilità perduta. Ecco la retorica della “mascolinità in crisi” che, invece di aprire un’autocritica, si trasforma in barricata.


La polarizzazione, dunque, non nasce dal nulla. È figlia di un conflitto simbolico, profondo, tra un mondo che cambia e un’identità maschile che non è stata preparata al cambiamento. Da questa fase di stallo è necessario trovare una via di uscita, serve però un passaggio decisivo: riconoscere che la parità non è una sottrazione, ma una liberazione reciproca.


Non tutti gli uomini sono apertamente ostili all’idea di uguaglianza. Molti, anzi, dichiarano di sostenerla. Eppure tra la dichiarazione e l’impegno concreto spesso oggi si ha di fronte una differenza sostanziale. Perché? 


Il nodo non sembra essere solo culturale, ma forse più “percettivo”. L’uguaglianza viene spesso intesa come una minaccia alla propria sicurezza sociale e personale, dunque non si tratta necessariamente di malafede: è una reazione viscerale, quasi automatica, a un cambiamento che scuote le fondamenta della propria posizione nel mondo. Se la società inizia a ridistribuire spazio e potere chi ne ha sempre avuto la fetta più grande lo percepisce come un esproprio.


Questa reazione difensiva oggi si traduce o con il disimpegnarsi dalla questione, oppure con un’adesione formale che non diventa mai un azione reale. Il sostegno ai valori della parità rimane, per molti, un atto puramente dichiarativo, una posizione “socialmente accettabile” che però spesso evita qualsiasi trasformazione sostanziale del proprio ruolo.


Esistono comunque uomini che prendono coscienza dell’ingiustizia schierandosi a favore per la parità di genere, non per un semplice senso di colpa sterile, ma spinti da un senso etico attivo, capace di produrre tensione morale e volontà di agire. Il problema principale riguarda l’accoglienza che ricevono e la zona grigia nella quale sono costretti a muoversi: troppo “strano” per gli altri uomini, troppo “ingombrante” per alcune donne. La situazione di questi uomini sembra essere dunque di fronte ad un paradosso nel quale si riconosce il proprio privilegio, ma non si riesce a non suscitare una certa diffidenza. Da un lato, c’è un fronte maschile più tradizionalista che reagisce con disprezzo o scherno, descrivendo il loro impegno come un tentativo opportunista di ottenere riconoscimento sessuale o sociale. 


Dall’altro lato, anche alcuni ambienti femministi accolgono l’alleato maschile con cautela. Certamente non per ostilità gratuita, ma probabilmente per una forma di memoria storica, abbinata ad una diffidenza generale, poiché molti uomini dimostrano di non aver ancora capito il problema. Il movimento femminista è nato come una risposta ad una cultura maschile dominante, dunque è comprensibile non fidarsi facilmente di chi, fino a ieri, rappresentava il problema. Il timore è che gli uomini tornino a rioccupare lo spazio duramente conquistato, anche nel tentativo (in apparenza generoso) di aiutare.  


Questa doppia tensione problematica crea un clima sfibrante: gli uomini cosiddetti “alleati” si trovano spesso in una posizione scomoda, in cui devono continuamente dimostrare la propria autenticità. Il contesto in questione assomiglia ad un campo minato dove una parola spesso è passibile di errore, un passo rischia di sembrare invadente ed i silenzi vengono letti come complicità. Insomma il rischio di essere fraintesi è dietro l’angolo. 

Il risultato? Molti uomini si stancano. E non perché non credano più nella causa, ma perché sentono di non avere un posto legittimo all’interno del quale agire; alcuni si allontanano, scoraggiati dal dover continuamente giustificare la propria presenza, altri restano ai margini, in una neutralità prudente che, purtroppo, sostiene la struttura di potere che si vorrebbe abbattere. Eppure, è proprio in questo punto di attrito che si gioca la sfida più interessante: perché riconoscere la diffidenza non significa evitarla, ma attraversarla. Imparare a stare in una posizione scomoda, decentrata, non difensiva, può essere il primo vero atto politico per una forma nuova di dialogo. 


Se la diffidenza esiste allora il compito non è evitarla, ma costruire le condizioni per un’alleanza maschile credibile e trasformativa: portare il discorso nei luoghi dove il maschilismo si forma e si riproduce; non cercare approvazione necessariamente negli ambienti femministi, ma agire nel proprio contesto: tra amici, colleghi, nei contesti sportivi, nelle chat tra uomini. 


È fondamentale ricordare che il cambiamento vero non è spettacolare, non produce like, non sempre genera gratitudine, non si vede spesso sui social, ma nella maggior parte dei casi è invisibile, lento e faticoso. 


C’è un prezzo alto, e spesso invisibile, che si paga ogni volta che un uomo sensibile alla questione di genere sceglie di non esporsi: non si traduce in odio, non lascia ad esempio commenti rancorosi sotto i post femministi, non ironizza su argomenti come i congedi di paternità o sulle quote rosa. Semplicemente scompare. Rimane in disparte, muto, disattivato. 


Questa ritirata silenziosa è forse il più grande fallimento politico e culturale del nostro tempo: perdere proprio quegli uomini che non si riconoscono nei modelli patriarcali, ma che non trovano uno spazio legittimo per agire. Uomini che non vogliono essere padroni, ma neppure colpevoli per definizione. Che vorrebbero partecipare ma non sanno dove collocarsi, né come muoversi.


Così, tra il timore del giudizio altrui, la paura di sbagliare e l’assenza di percorsi riconosciuti, molti si convincono dell’idea che non ne valga poi così tanto la pena e che non verranno mai davvero accolti sinceramente, degenerando in un lento logoramento non visibile, che svuota dall’interno la possibilità di costruire una trasformazione condivisa.


Il risultato è così duplice: da un lato, le donne si ritrovano ancora una volta sole nel portare avanti il cambiamento culturale, politico e relazionale; dall’altro, la critica al patriarcato rimane una nicchia, abitata solo da pochi uomini. 


Ma un cambiamento vero non può essere certamente retto da una minoranza eroica. Serve una massa critica di uomini coinvolti, imperfetti ma presenti, fragili ma disponibili a esporsi. E questa massa non nascerà se continueremo a trattare ogni gesto maschile con sospetto pregiudiziale o con indifferenza; la vigilanza è certamente necessaria e comprensibile, ma senza la possibilità di errore nessuna trasformazione è realmente possibile.

 

L’alleanza tra uomini e il movimento femminista non è semplice, non è lineare, non è priva di contraddizioni e probabilmente non lo sarà mai: proprio per questo, è quindi urgente e necessaria. Per questo servono uomini che abbiano il coraggio di attraversare l’ambivalenza, di vivere la complessità senza reclamarne il controllo, che sappiano confrontarsi e dibattere aspramente senza aspettarsi necessariamente un riconoscimento immediato, disposti a scomporsi, a farsi attraversare da domande nuove. Dall’altra parte serve anche capacità di accogliere questi uomini senza cedere alla tentazione di respingerli alla prima ambiguità, a concepirli non più come semplici bersagli di un processo di decostruzione che ormai ha raggiunto il suo termine. Bisogna iniziare ad accettare che un’alleanza e un dialogo, se veritieri, espongono anche a frustrazioni, inciampi, imperfezioni.


Sogno di un dialogo tra sessi.

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