IL PRIVILEGIO DEL LUTTO
- Brando Ottavi
- 16 mag
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 26 lug

Vorrei iniziare con una precisazione: non voglio sminuire il dolore di nessuno, né negare il valore profondo che il sentimento di lutto verso l’Altro porta con sé. La mia riflessione parte invece dal tentativo di mostrare come alcuni dolori vengano amplificati, mostrati e universalizzati, mentre altri vengano cancellati e considerati irrilevanti. Ci penso da quando è arrivata la notizia della morte del Papa e da come si è evoluto l'intero scenario: la proclamazione dei giorni di lutto nazionale, il susseguirsi di cerimonie solenni, il conclave, la massiccia copertura mediatica. Non riesco a non pensarci, a restare in silenzio davanti a ciò che sta accadendo. Con tutta la delicatezza necessaria, mi sembra assurdo: i selfie davanti alla salma, le dirette televisive continue, i social invasi da post commemorativi, il dolore trasformato in evento mediatico. Comprendo perfettamente l'importanza mondiale di questa figura, sia nel contesto ecclesiastico sia in quello statale (in uno Stato che si definisce "laico" ma che nei fatti mostra ancora profonde mescolanze religiose). Eppure, mentre assistiamo a questa imponente esposizione pubblica del lutto, altrove il dolore viene ridotto al silenzio. Siamo circondati da guerre, genocidi, tragedie umanitarie. Mentre il conflitto infuria e le principali potenze mondiali temporeggiano o addirittura voltano lo sguardo, qui, di fronte alla morte di un singolo, per quanto importante, assistiamo a una mobilitazione totale, compatta e planetaria del dolore. Questa disparità nel trattamento della morte e del lutto mi riempie di amarezza. Durante il funerale del Papa, abbiamo assistito a una delle rappresentazioni più evidenti del modo in cui la morte può trasformarsi in un evento politico. Le immagini mostravano personalità di spicco provenienti da ogni parte del mondo, riunite attorno alla stessa cerimonia, nel segno di un lutto condiviso. Ma a colpirmi più di tutto è stata una fotografia in particolare: quella che ritrae Donald Trump e Volodymyr Zelensky seduti fianco a fianco, intenti a dialogare in quella sede. Un'immagine paradossale, quasi surreale, che mi ha provocato un senso di disorientamento e irritazione. Due figure che, fino a poco tempo prima, si erano scontrate pubblicamente, lanciandosi accuse e mostrando aperta ostilità, appaiono improvvisamente riappacificate, come se la solennità del momento potesse annullare ogni contrasto precedente. Non si tratta solo di un incontro tra due leader: quella foto è il simbolo di un dispositivo più ampio, in cui il lutto si trasforma in strumento di diplomazia, in palcoscenico di visibilità globale.
Non più esperienza autentica e collettiva del dolore, ma teatro pubblico. Il dolore, in questo contesto, non è più un vissuto umano da condividere, ma una risorsa da capitalizzare: si seleziona, viene esposto e si trasforma in gesto strategico.
Ed è proprio qui che si innesta il concetto di tanatopolitica. Con questo termine, nato dalle riflessioni di Michel Foucault sulla biopolitica, si intende il modo in cui il potere politico amministra la morte: decide quali vite siano degne di essere protette e quali, invece, possono essere abbandonate. Non si tratta più di un potere autoritario e visibile come quello esercitato dai sovrani, capaci di decidere in modo esplicito chi far vivere e chi far morire. Il potere contemporaneo è più subdolo, spesso travestito da necessità tecnica o buonsenso amministrativo. Esso stabilisce chi può accedere alle cure, chi ha diritto alla protezione, chi può essere esposto al rischio, alla violenza, senza che questo provochi indignazione pubblica. Questo “lasciare morire”, che un tempo sarebbe apparso come una crudele violazione, oggi si mimetizza come effetto collaterale inevitabile. Viene giustificato con l’uso di concetti come “emergenza”, “crisi”. Ma si tratta, in realtà, di scelte politiche ben precise. La tanatopolitica opera in silenzio, attraverso criteri impercettibili ma profondamente efficaci, selezionando chi resta all’interno del perimetro dell’umanità e chi ne viene escluso. In questo quadro, anche il lutto diventa uno strumento di potere: non tutti i morti sono uguali, non tutte le perdite ricevono la stessa attenzione. Vi sono morti da commemorare, da esibire, da santificare pubblicamente, e morti da nascondere, minimizzare ma soprattutto rimuovere in fretta. Il cordoglio si fa gerarchico, il pianto rituale si distribuisce in base al prestigio, al contesto politico, all'utilità simbolica del defunto. In questo senso, il lutto non è più un diritto umano condiviso, ma un privilegio.
La gestione della morte non è neutrale: è uno strumento attraverso cui il potere plasma l'opinione pubblica, rafforza le identità collettive o cancella intere esistenze dalla memoria sociale.
Non è solo nelle guerre dichiarate che si manifesta questa logica: è nella gestione invisibile della sopravvivenza, nella differenza tra quali morti ricevano memoria e quali vengano consegnate all'oblio, che la tanatopolitica rivela tutta la sua potenza. La riappacificazione di facciata tra Trump e Zelensky in un evento funebre globale, mentre altrove migliaia di morti vengono ignorati, è una manifestazione concreta di questo meccanismo. Il lutto, in questo scenario, smette di essere un diritto condiviso per trasformarsi in un privilegio. Si stabilisce così, in modo più o meno esplicito, chi ha diritto a essere pianto e chi no. La morte stessa diventa un territorio diseguale: esistono morti di serie A, che ricevono rituali solenni, e morti di serie B, che vengono confinate al silenzio. Questa logica non riguarda soltanto contesti lontani o astratti. La tanatopolitica trova espressione concreta anche nei nostri territori, nei fatti di cronaca più recenti. La strage di Cutro, avvenuta tra il 25 e il 26 febbraio 2023, ne è un esempio drammatico: 94 persone hanno perso la vita a pochi metri dalle nostre coste. Eppure, di fronte a una tragedia di tale portata, l’Italia istituzionale è rimasta distante, fredda. Nessuna visita immediata da parte delle più alte cariche dello Stato, nessun lutto nazionale proclamato, nessun gesto simbolico di reale condivisione del dolore. Anzi, le immagini che hanno circolato in quei giorni (ministri sorridenti, impegnati in serate di gala, intenti a cantare karaoke proprio nelle ore successive al naufragio ) hanno fatto emergere con crudezza la disparità nel trattamento del lutto. Quella sera, il dolore di Cutro non è stato solo ignorato: è stato sovrascritto da un gesto pubblico di indifferenza. È qui che la gerarchia nascosta tra le vite si fa visibile: alcune morti interrompono il flusso della quotidianità, altre no; alcune ci chiedono di fermarci, altre devono passare in fretta, quasi fossero un fastidio. Eppure, come ricordava l’antropologo Ernesto De Martino, il rito funebre non è soltanto un saluto ai defunti: è un atto fondativo dell’umanità stessa. È attraverso il rito, infatti, che una comunità rielabora la perdita e tenta di ricostruire l’ordine simbolico infranto dalla morte. Piangere insieme non significa solo rendere onore a chi non c’è più, ma anche riaffermare la propria identità collettiva, i propri valori condivisi, la propria capacità di riconoscersi parte di un tutto. È un processo che riguarda tanto i vivi quanto i morti: attraverso il cordoglio, ribadiamo chi fa parte della nostra comunità e chi no. E negare questo gesto significa esercitare una forma di esclusione radicale. Non solo si decide chi è degno di essere compianto, ma si nega, a chi viene ignorato, perfino il diritto simbolico di essere stato. Il silenzio diventa allora una sentenza: chi non viene pianto, sembra non essere mai esistito davvero. In questa prospettiva, è impossibile non vedere come la nostra società pianga in modo selettivo. Alcuni morti diventano figure centrali della memoria collettiva, ricevono copertura mediatica, rituali di commemorazione; altri vengono dimenticati prima ancora che la loro storia possa essere raccontata. Ed è proprio in questo squilibrio che si rivela la natura più profonda della tanatopolitica contemporanea. Questo meccanismo rivela la persistenza di una gerarchia del valore delle vite e delle morti: non tutte le morti sono degne di essere viste, non tutti i dolori sono autorizzati a esistere nella vita pubblica. Ed è forse questa la vera tragedia del nostro tempo: aver dimenticato che il cordoglio è un atto profondamente politico, che il lutto non è mai solo privato, ma è sempre un atto collettivo di riconoscimento.
Riconoscere e compiangere il dolore dell'Altro, senza distinzioni, è ciò che ci permette di restare umani. Negarlo, invece, è la prima forma di disumanità: è il segno che abbiamo smarrito l'idea stessa di una comune appartenenza, quella che ci unisce tutti.
Vorrei sottolinearlo con ancora più chiarezza: non ho scelto di parlare della morte del Papa per disprezzo verso la sua figura, né per negare il valore che ha avuto nella vita di tante persone. Al contrario, è stata proprio l'imponente reazione collettiva alla sua scomparsa a farmi riflettere su quanto, ancora oggi, la morte non sia mai uguale per tutti. Questo confronto doloroso mi ha aperto gli occhi su una verità semplice ma al tempo stesso molto triste: il cordoglio, come la vita, viene distribuito in modo ingiusto. Non si tratta di giudicare il dolore, ma di interrogarsi sul perché certi lutti ci vengano chiesti di sentirli come "nostri" e altri, invece, vengano spinti nell'ombra e sepolti nell'indifferenza. Si tratta di domandarsi che tipo di società vogliamo essere: una che sa piangere ogni perdita, o una che riserva l'umanità solo ad alcuni. Riconoscere ogni morte, ogni dolore, anche quello che non ci riguarda da vicino, significa difendere uno spazio comune contro l'indifferenza. In questo contesto, il paradosso della morte di Papa Francesco assume una forza ancora maggiore. Il Papa, in tanti dei suoi discorsi e azioni, ha richiamato i valori di San Francesco d'Assisi, che ha incarnato la figura di chi rinuncia a ogni forma di potere, scegliendo una vita di povertà, di semplicità. Francesco, e con lui Papa Bergoglio, ha predicato l'uguaglianza tra gli esseri umani, l'importanza della solidarietà, e ha condannato la lussuria, la sopraffazione e l'ostentazione. Eppure, in questo momento, quando ci viene chiesto di piangere la sua morte, siamo chiamati a partecipare ad uno spettacolo mediatico che, per quanto legittimo e comprensibile nella sua rilevanza, sembra quasi deviare quelle stesse parole di un Papa che non ha mai cercato la visibilità, né il privilegio. Non si tratta solo di una questione di contrasto tra la povertà e la ricchezza: la disparità tra il cordoglio solenne e la commemorazione mondana da una parte, e il silenzio assordante che circonda morti e sofferenze di chi è ignorato, quasi invisibile, dall'altra, è un chiaro esempio di come, in un certo senso, non siamo stati capaci di ascoltare appieno il messaggio che Papa Francesco ha cercato di trasmettere. La morte, celebrata e riconosciuta in alcuni casi, continua a essere gestita come un atto politico che distingue tra chi merita di essere pianto pubblicamente e chi è costretto a scomparire senza lasciar traccia.
Ecco allora che ci troviamo davanti a una scelta decisiva: continuare a scorrere (con il dito - con lo sguardo - con il pensiero) tra immagini selezionate del dolore, confezionate per essere viste ma non sentite, oppure provare a fermarci, ad ascoltare anche ciò che non viene trasmesso, ciò che non va in onda e che non riempie i feed.
Perché ogni vita negata al lutto è una vita che ignoriamo. E ogni morte ignorata è una sconfitta della comunità, una soglia che ci allontana dal senso stesso di essere umani insieme. Riconoscere il dolore messo ai margini è resistenza. Non c’è futuro in una società che accende luci solo su alcune perdite e lascia le altre dissolversi nel buio del silenzio. E allora penso che restare umani comincia proprio da qui: dal non accettare che il dolore diventi spettacolo, e che la memoria sia un privilegio.
IL PRIVILEGIO DEL LUTTO
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