PARA BELLUM?
- Jose D'Alessandro
- 30 apr
- Tempo di lettura: 5 min
Si vis pacem
Non amo la guerra. Non più, almeno, essendo la mia generazione cresciuta giocando con i soldatini e guardando i film di guerra americani.
Von Clausewitz diceva con un cinismo involontario, che è solo la continuazione della politica con altri mezzi.

Oggi penso che ne sia la sostituzione quando la politica ha fallito.
Non mi sento però di aderire al pacifismo oltranzista, forse perché mi manca l’esperienza diretta del sangue, delle mutilazioni, della morte, che alcuni di quei pacifisti come Gino Strada avevano sperimentato invece in prima persona. Non quelli da salotto.
Para bellum, di fatto questo è il messaggio che accuratamente una buona parte delle classi dirigenti Europee, nazionali ed internazionali, ci sta passando contro quello opposto, altrettanto accuratamente veicolato dall’altra parte, e per questa non intendo solo i detti pacifisti, ma anche uno dei belligeranti.
Facile dire che la frase è stata coniata da una potenza imperiale espansiva come l’impero Romano, ma è vero che anche quando quella spinta si arrestò, quello che garantì la sua pace furono le legioni ferme ai confini, e quando quella tensione si allentò, iniziarono i guai.
Quindi l’europa si deve riarmare?

Non ho una risposta, ma molte domande.
La prima: cos’è la guerra oggi? E a cosa serve?
Se la guerra in Ucraina ci sta insegnando qualcosa, ma in fondo tutte le guerre recenti ce lo hanno dimostrato, è che sicuramente non è più con i boots on the ground, che si vince.
Con i droni e molte delle nuove armi le guerre diventano quasi inevitabilmente di attrito, e anche paesi decisamente più deboli militarmente possono sviluppare capacità di resistenza prima impossibili. Se poi sono pronti a pagare un prezzo alto di vite umane, diventano imbattibili per quelli le cui popolazioni non sono più disponibili a corrispondere (contraccambiare fare lo stesso).
Certo, come ci ha ricordato il film “Leave the World Behind” (al quale interessantemente ha collaborato Obama), i satelliti ed le cybertecnologie possono mettere in ginocchio un sistema difensivo e infrastrutturale, ma solo se non si è pensato ad un backbone analogico, come insegnò agli americani il generale Van Riper nella Millennium challenge.
E non si vincono nemmeno con le superarmi come l’ATOMICA: IMHO nessun capo di stato, nessun dittatore, nemmeno Kim, vuole passare alla storia come chi ha usato la bomba atomica per primo.
I russi fautori del mixed warfare dovrebbero forse riconoscere che quello che funziona non è l’hardware massiccio delle armi, ma il software delle fake news, della propaganda, dei governi fantoccio, che arrivati “democraticamente” al potere tengono a bada il loro popolo, con il supporto di una parte di esso.
E nemmeno serve ad aumentare l’estensione territoriale di un paese, se nell’ultimo secolo nessun paese ha mai ottenuto duraturi guadagni territoriali, forse con la sola eccezione del tibet, che però non era un vero stato.
Quindi probabilmente la guerra serve principalmente a svuotare i magazzini delle vecchie armi e tenere in piedi il sistema industriale militare, contro il quale aveva ci ammonito il presidente Eisenhower (un ex generale) già nel 61.
I sostenitori del riarmo sostengono però che ogni euro investito in quel sistema ha un moltiplicatore superiore a uno, quindi un ritorno positivo per i paesi che ci investono. E la storia dell’innovazione dimostra almeno che le guerre sono state dei grandi acceleratori con ottime ricadute sui sistemi civili.
Questo genera però un’altra domanda:
è possibile che non ci siano alternative?

E anche qui imprese come le missioni lunari hanno dimostrato di saper generare ritorni e ricadute altissimi. Se solo la missione Apollo ha generato migliaia di brevetti che ci ritroviamo nella vita di tutti i giorni, non varrebbe la pena di lanciarne una altrettanto importante, ad esempio chiudere il gap sull’intelligenza artificiale in Europa, che potrebbe tornare molto utile anche in caso di guerra non convenzionale?
Aggiungo un’altra domanda, l’impatto sull’unione europea.
Che se ne porta appresso altre 2: l’orizzonte temporale sul quale muoversi e i trade off ai quali riarmarsi ci costringerà.
Secondo me gli scenari possibili sono solo 2.
Il primo potrebbe essere ironicamente positivo, e portare a superare certi egoismi nazionali e produrre forme di collaborazione strutturate, alternative all’unanimità che oggi ingessa il funzionamento continentale. C’è una vecchia “falsa etimologia”, nel quale cascò anche JFK, che dice che in cinese il concetto di crisi è espresso da 2 ideogrammi che significano pericolo e opportunità, eppure la combinazione è vera in generale e particolarmente azzeccata nel caso specifico. C’è un solo problema, saper trasformare il pericolo in opportunità richiede una leadership forte, e mi sembra che questa sia merce rara in questi tempi di politici influencer, e che dimostri di saper bilanciare egoismi nazionali e interessi continentali.
L’altro sarebbe la spallata definitiva che porterebbe al tracollo di un’unione che, in parte (ma non così tanto come le narrazioni interessate che ci vengono imboccate dai social, prima fonte di informazione della maggioranza dei cittadini), ha disatteso molte promesse e speranze che l’avevano sostenuta, bloccandosi su questioni vitali e trasferendo troppo potere ad una burocrazia autoreferenziale cresciuta su dogmi ideologici e fondamentalmente non “accountable”.
Ovviamente la disgregazione della UE incontra il favore e serve gli interessi delle autocrazie esterne, che mal digeriscono l’idea di un continente che possa reclamare un ruolo politico, oggi estremamente limitato alla difesa di alcuni interessi economici e a petizioni di principio (ad es. sui diritti umani), costantemente negate da comportamenti non conseguenti. E anche quelli delle crescenti in numero autocrazie interne l’Ungheria di Orban, la Slovacchia di Fico (l’Italia della Meloni?) intente a segare con entusiasmo il ramo sul quale sono sedute, sperando nei favori dell’autocrate nella cui orbita sperano di finire.
Un rearm veloce, significherebbe di fatto trasferire moltissime risorse agli Stati Uniti, oggi l’unico fornitore vero di sistemi d’arma integrati e avanzati, mentre uno di durata minimo decennale potrebbe in effetti essere un’opportunità per creare un’industria della difesa europea autonoma e forte, ma a condizione di realizzare quel bilanciamento di cui sopra e di sacrificare in parte l’autonomia difensiva dei singoli paesi. Ma comunque non rappresenterebbe una soluzione nel breve che a questo punto dovrebbe essere pericolosamente ibrida, e lasciarci particolarmente vulnerabili.
Ma a quale prezzo? A cosa dovrà rinunciare l’Europa per riarmarsi? E se anche quelle fossero risorse aggiuntive, finanziate, finalmente, con debito europeo, alla luce dei dubbi espressi sarebbe un buon utilizzo di denaro?
Una delle poche cose che ho imparato sulla strategia in tempi di complessità e cigni neri, è che bisogna scegliere quella che funziona su quanti più scenari possibili, anche se subottimale in uno specifico. Allora, non sarebbe meglio investire in ricerca (AI in particolare), educazione, sicurezza sociale, sostenibilità, sviluppo e cooperazione per gestire i flussi migratori, altra potentissima arma nelle mani delle autocrazie, capacità cibernetiche, lotta alle fake news…
My 10 cents.

Post scriptum.
Si è scatenata nel frattempo un’altra guerra, commerciale, quella dei dazi, che rischia di diventare un tutti contro tutti, ma che paradossalmente rinforza molti dei punti discussi finora.
Credo che in qualche modo rinforzi quanto presentato nel post qui sopra.
Voi cosa ne pensate?
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