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Bellezza Estetica ed Etica della Città

Aggiornamento: 14 ago

Bellezza Estetica ed Etica della Città

“Chi governa deve avere a cuore massimamente la bellezza della città, 

per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, 

per onore, prosperità e accrescimento 

della città e dei cittadini” 

(Costituto senese, 1309)


Supponete di entrare, con altre persone, in una galleria d’arte; una volta passate in rassegna le opere esposte, viene dato a ciascuno carta e penna e vi viene chiesto di scrivere sul vostro foglio i titoli di quelle che ritenete “belle”, seguiti da un breve commento che giustifichi la vostra scelta. Con grande probabilità, in almeno una lista figurerà un titolo che non figura in un’altra e le giustificazioni che fornirete saranno assai diverse: nihil sub sole novum, dal momento che bello è un termine che sfugge ad agevoli definizioni perché non dispone di un metodo di applicazione universalmente valido. Supponete, inoltre, che le altre persone provengano da culture differenti; a complicare la situazione vi sarebbe il fatto che il concetto di bello è culturalmente connotato: per esempio, la parola giapponese utsukushii (美しい) veicola un’idea di bellezza diversa da quella che veicola la parola beautiful – nonostante quest’ultima sia la traduzione inglese della prima –, nel senso che un fruitore giapponese potrebbe non ritenere utsukushii un’opera che la maggior parte dei fruitori inglesi riterrebbe beautiful. Infine, supponete che le altre persone provengano dal Medioevo, in particolare dal periodo in cui il Costituto senese qui sopra riportato è stato scritto: un esperimento mentale assurdo, non essendovi la possibilità storica che un individuo del Medioevo entri in una galleria d’arte del ventunesimo secolo – i progressi nel campo dell’intelligenza artificiale potrebbero invalidare la mia ultima considerazione; tuttavia è una possibilità logica che prenderemo in considerazione ai fini del nostro ragionamento. Il concetto di bello non è solo culturalmente connotato, ma è anche storicamente connotato: quando un nostro contemporaneo dice “bello”, si avvale di un termine che apre a una sfera di significati molto più ampia e varia di quella a cui apre lo stesso termine utilizzato dai nostri antenati del medioevo; questo accade perché le parole evolvono nel corso del tempo e possono, come in questo caso, acquisire alcune accezioni che prima non avevano e riferirsi a dei vocaboli a cui prima non si riferivano. Nonostante non ne esista un metodo di applicazione universalmente valido e sia culturalmente e storicamente connotato, tuttavia possiamo individuare – almeno all’interno della tradizione occidentale – un filo rosso che collega le varie sfumature del termine bello, senza profanarne la ricchezza semantica. E quale miglior telaio della cultura greca classica?

Nell’antica Grecia il concetto di bello, kalòn (καλόv), è legato a quello di armonia, harmonìā (ἁρμονία), termine che ha la stessa radice del verbo armozein (αρμόζειv), il cui significato è “mettere assieme, collegare, essere d’accordo”. La radice in questione, ar, la stessa di un’altra parola greca significativa, arithmós (ἀριθμός, numero), da cui aritmetica, allude proprio a un rapporto di forze che mettono assieme, collegano, accordano una serie di elementi e che stanno alla base di un tutto proporzionato, come può essere una melodia (o, per l’appunto, armonia) o un componimento poetico. Mi preme sottolineare che le forze che rendono possibile il rapporto armonico sono forze contrastanti. Non è un caso che nella Teogonia di Esiodo la dea Armonia è figlia di Afrodite, la dea dell’Amore, e Ares, il dio della Guerra, amore e guerra che si configurano proprio come due forze (apparentemente) antitetiche. Quindi, la bellezza si manifesta laddove si danno armonia, proporzione, equilibrio, intesi come esiti di rapporti di forze. Inoltre, la bellezza non è pertinente solo alla sfera dell’arte: bella può essere quella persona che ha saputo raggiungere una certa armonia, un certo equilibrio interiore, coniugando l’attività del proprio corpo con quella della propria mente, quali condizioni necessarie per uno stile di vita – che in greco si dice dìaita (δίαιτα), da cui la parola dieta – sano. Bella può essere anche una città, tanto da un punto di vista artistico, quanto da un punto di vista istituzionale; infatti, la città è bella se è governata secondo armonia ed equilibrio e i cittadini, avendo a modello l’uomo kalòs kai agathòs (καλὸς καὶ ἀγαθός), letteralmente bello e coraggioso, si prendono cura di sé, degli altri e dell’ambiente che li circonda. Proprio il concetto dell’epimèleia heautoù (ἐπιμέλεια ἑαυτου), della cura di sé, è un concetto chiave nella Grecia classica. I giovani destinati a diventare futuri cittadini intraprendevano un percorso educativo, chiamato paidéia (παιδεία), grazie al quale imparavano a prendersi cura di sé; l’iter comprendeva anche l’educazione al bello, affinché il giovane potesse riconoscerlo, apprezzarlo e custodirlo. Non è un caso che Pericle, politico ateniese, durante l’epitaffio dei caduti nel primo anno della guerra del Peloponneso, ricordi come gli Ateniesi “amano il bello con misura e filosofano senza paura” (Tucidide, Guerra del Peloponneso). Inoltre, il modo in cui era concepito questo iter formativo promuoveva un forte senso di appartenenza alla propria comunità e al proprio territorio: al futuro cittadino veniva insegnato che la bellezza non era un obiettivo da conseguire solo per sé stesso, ma anche per la città e la patria: armonia, proporzione, equilibrio dovevano essere caratteristiche precipue del singolo, della collettività e della terra che l’ospitava, che i Greci chiamavano  mētēr (μήτηρ), madre, e per cui erano disposti a sacrificare la vita, come testimonia il frammento numero 10 di Tirteo dove si legge che “è bello morire, cadendo in prima fila, per un uomo valente, mentre lotta per la sua patria”; e come testimonia la scelta di Eschilo, uno dei più grandi tragediografi della Grecia antica, di non riportare sulla sua epigrafe il fatto che fosse stato un celebre tragediografo, ma che appena ventenne avesse combattuto a Maratona contro i Persiani per la libertà dei propri concittadini e della propria patria. Oltre a harmonìā, epimèleia heautoù e paidéia, c’è un altro termine che dobbiamo menzionare in relazione al concetto di kalòn: téchne (τέχνη), che oggi siamo soliti tradurre con “arte”, ma che in età antica denotava l’abilità di un individuo di padroneggiare un insieme di norme volte al compimento di un’attività, che poteva essere tanto artigianale quanto intellettuale. L’acquisizione della téchne richiedeva anni di allenamento, non bastava che un individuo fosse talentuoso, doveva metterci costanza e determinazione affinché questo talento venisse coltivato in maniera opportuna. Nel dominio della téchne rientravano anche le pratiche artistiche in senso stretto, quindi la scultura, la musica, l’arte drammatica e via dicendo, quelle che oggi chiamiamo le belle arti. Ma non era per un motivo squisitamente estetico, come erroneamente siamo portati a pensare, che la téchne era bella: attraverso l’arte, allora come oggi, l’individuo poteva estrinsecare ed esprimere sé stesso per comprendersi meglio e imprimere il suo sigillo sulla figura delle cose al fine di riconoscersi – per dirla à-la Hegel. È questo valore cognitivo della téchne che merita la nostra attenzione e che è legato al concetto di kalòn.


Bellezza Estetica ed Etica della Città

Ora, la concezione di bellezza che avevano i Greci e di cui la presente introduzione non è che una povera sinossi, sta alla base del concetto di bello che abbiamo oggi e che avevano i nostri antenati nel 1309. Le parole del Costituto senese sono l’esemplificazione del periodo di splendore che la città di Siena stava vivendo da un punto di vista artistico-architettonico; infatti, risalgono ai decenni attorno al XIV secolo le costruzioni della maggior parte dei monumenti oggi simboli della città, come il Palazzo Pubblico e la Torre del Mangia. Ma perché era (ed è) importante, per il governante, avere a cuore la bellezza della città – bellezza intesa nel senso lato che qui abbiamo preso in considerazione? Perché la bellezza della città, che si tratti della polis greca, della cittadella medioevale o della metropoli moderna, è stata, è e sempre sarà l’esito di una collaborazione dei cittadini nella cura e nella valorizzazione di quanto li circonda; e siffatte cura e valorizzazione sono possibili solo se prima i cittadini si prendono cura della propria e dell’altrui persona: grazie all’educazione ci vengono forniti gli strumenti per muoverci nel mondo, nel rispetto degli esseri viventi, della terra che calpestiamo, dell’aria che respiriamo e degli edifici che ci ospitano. Nessuna città nasce bella e, anche se assumessimo che una città possa nascere bella, ci sarebbe comunque il problema di mantenerla tale. Una città diventa bella se i suoi cittadini sanno riconoscere il valore potenziale del luogo in cui vivono e, una volta portato alla luce e realizzato, imparano a preservarlo nella sua autenticità affinché la città non solo diventi, ma anche rimanga bella. In altre parole, il governante deve avere a cuore la bellezza della città perché coltivando e preservando la bellezza della città coltiva e preserva la “bellezza” dei cittadini che la abitano. A questo punto, possiamo individuare due declinazioni del concetto di bellezza: la bellezza estetica e la bellezza etica. La bellezza estetica interessa le belle arti e il piacere dei sensi ed è l’oggetto del giudizio di gusto, la bellezza etica interessa l’espletamento dei doveri che abbiamo in quanto esseri umani e cittadini ed è l’oggetto del giudizio politico-morale. Le due declinazioni sono imprescindibili l’una dall’altra, sebbene da un punto di vista teorico possano essere considerate separatamente, come accadrà in questa sede. La bellezza estetica interessa, abbiamo detto, le belle arti e il piacere dei sensi: quando camminiamo per una città, riceviamo diversi input percettivi (vista, olfatto, gusto, udito, tatto) che spesso e volentieri diventano l’oggetto del nostro giudizio di gusto e contribuiscono ad arricchire – nel bene o nel male – l’idea che abbiamo di quella città. Ognuno di noi può rimanere colpito dalla vista di un monumento, di un museo, di una piazza, di una via, di una spiaggia, del mare o della montagna della città che sta visitando o in cui vive; ma può rimanere colpito anche dai suoni, dagli odori, dai sapori, dalle consistenze. Per rendere la città vivibile per i cittadini e attraente per i turisti è necessario che il governante consideri la bellezza estetica e induca tutti i cittadini, lui compreso, a prendersene cura. La bellezza etica si divide in bellezza politica e religiosa, dove con bellezza religiosa non intendo la bellezza legata a una religione, sia essa quella cattolica o quello buddhista, ma intendo la bellezza derivante dalla coscienziosità. Infatti, come molti lettori sapranno, il termine religione deriva dal latino religio (scrupolosità, coscienzionsità), che a sua volta potrebbe derivare o dal verbo relegere, della terza coniugazione, il cui significato è “raccogliere”, oppure dal verbo religare, della prima, il cui significato è “legare”. Partiamo proprio dalla bellezza religiosa: la coscienziosità da cui la bellezza religiosa muove è la capacità di comportarsi secondo coscienza ed è legata sia al concetto espresso dal verbo relegere, quindi il raccogliere, che può indicare il raccogliere esperienze che ci aiutano a essere più coscienti di quanto ci circonda, sia al concetto espresso dal verbo religare, ossia l’essere legati a qualcuno o a qualcosa; in particolare, gli esseri umani hanno dei vincoli, dei doveri, nei confronti dei propri simili, degli animali e dell’ambiente: sebbene il termine dovere sia politicamente connotato, tali doveri – che d’ora in poi chiamerò morali – vanno oltre i doveri che a breve chiamerò “politici”, e sono quei doveri che espletiamo perché prima abbiamo riconosciuto l’inalienabilità di alcuni diritti di ogni essere umano, quelli che nel 1948 vennero stampati su carta, ma che sono stampati nella mente di molti da ben prima. Il fatto che questi diritti morali esorbitino dalla sfera politica non implica che essi non possano fungere da modelli per i doveri politici (per esempio, nella nostra Costituzione i doveri politici cercano di incontrare quelli morali), ma vi sono casi in cui – vedi il Nazismo – i doveri morali divergono dai doveri politici e la presenza di tante situazioni analoghe è uno dei motivi che scongiurano la possibilità di una identità delle due tipologie di dovere. I doveri morali che pertengono alla bellezza religiosa possono essere riassunti dall’imperativo categorico kantiano, che recita: “agisci soltanto secondo quella massima per mezzo della quale puoi insieme volere che essa divenga una legge universale.” In altre parole, agisci rispettando la tua e l’altrui persona, così come tutto ciò che ti circonda, perché solo così potrai vivere bene e in armonia con gli altri. E il dovere politico? In che cosa consiste? I doveri politici caratterizzano la bellezza politica e sono quei doveri che ciascun cittadino deve espletare in quanto membro di una comunità che sussiste grazie al rispetto di un sistema di leggi. Infatti, si perviene alla bellezza politica se la maggior parte dei cittadini rispettano le leggi ed espletano i loro doveri politici dettati da queste. Già nell’antica Grecia il nómos (νόμος), la legge scritta, era il vero sovrano delle poleis tanto che, quando Serse – gran re persiano – chiese allo spartano Demarato cosa spingesse i Greci a opporsi ai Persiani, visto che i primi non avevano, come i secondi, qualcuno che li costringesse a farlo, Demarato rispose che il gran re si sbagliava, che i greci avevano un sovrano e che questa era la Legge e che essi combattevano per lei – già nell’antica Grecia vi era l’idea che è solo attraverso un sistema di leggi e il rispetto di queste da parte dei cittadini che vi può essere libertà. Inoltre, la bellezza politica è perseguibile solo laddove il sistema di leggi è condiviso e rispettato dalla maggior parte se non da tutti i cittadini sua sponte, ergo ognuno si impegna a rispettarlo per propria volontà e non per coazione. Tuttavia, la bellezza politica dell’antica Grecia è diversa dalla bellezza politica del medioevo, la quale a sua volta è diversa dalla bellezza politica di oggi: la differenza risiede nell’estensione del godimento della bellezza etica nelle sue due declinazioni. Nell’antica Grecia e nell’antica Roma, vi era un’idea solo approssimativa di ciò che nel presente lavoro viene espresso dal concetto di “bellezza religiosa”, infatti centinaia di migliaia di persone – penso agli individui che appartenevano alla categoria degli schiavi e che venivano considerati alla stregua delle cose – non potevano godere di tutti o della maggior parte dei diritti dei cittadini perché non avevano l’onere di espletare gli stessi doveri di questi, quindi non partecipavano della bellezza politica e religiosa della città in cui vivevano. Storicamente, le condizioni affinché il godimento della bellezza politica e di quella religiosa possa essere esteso a tutti si danno dopo l’avvento del Cristianesimo: Gesù Cristo fu il primo a dire che ogni essere umano è libero e uguale a tutti gli altri davanti a una legge (divina), il che non significa che ogni individuo è uguale agli altri, ma che la legge deve valere allo stesso modo per ogni essere umano: la bellezza religiosa di cui parliamo oggi e che vede la sua massima nell’imperativo categorico kantiano non era possibile prima di Gesù Cristo perché non vi era l’idea secondo cui ogni essere umano, indipendentemente dalla situazione sociale, ha il diritto di essere ugualmente diseguale agli altri – sempre per dirla à-la Hegel. Si può amarlo o non amarlo, ma filosoficamente parlando  il Cristianesimo ha fornito un terreno fertile per lo sviluppo del pensiero che sta alla base della maggior parte dei sistemi politici europei, quello italiano in primis, tanto che l’articolo 2 della nostra Costituzione  recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.” Nel Medioevo, più persone potevano aspirare al godimento delle bellezze politica e religiosa, ma si trattava sempre di un gruppo ristretto di individui, che spesso coincideva con il gruppo dei fautori della religione cristiana. Al giorno d’oggi, invece, tutti possono e (dovrebbero) aspirare al godimento della bellezza etica; inoltre, nello stato contemporaneo la bellezza politica cerca di andare di pari passo con la bellezza religiosa; il fatto che cerchi non implica che ci riesca, e questo perché il raggiungimento della bellezza religiosa tramite l’espletamento di tutti doveri politici e morali da parte di ciascun cittadino corrispondono a una situazione ideale a cui la città deve aspirare, ma a cui non può pervenire. Possiamo quindi riassumere la bellezza etica contemporanea come lo sforzo da parte della bellezza politica di identificarsi con la bellezza religiosa. Il concetto è molto semplice e le argomentazioni qui riportate non rendono grazia alla complessità del dibattito millenario sull’incontro-scontro tra etica e politica, ma è anche vero che tale dibattito ottiene le sue conquiste più in base a quello che facciamo che a quello che diciamo.


Bellezza Estetica ed Etica della Città

È giunto il momento di tirare le fila del discorso: abbiamo detto che il concetto di bello riassume in sé quelli di armonia, di proporzione, di cura di sé, di educazione, di arte; abbiamo elencato due tipi di bellezza, quella estetica e quella etica: la bellezza estetica ha a che vedere con il piacere dei sensi ed è l’oggetto del giudizio di gusto, quella etica ha a che vedere con l’espletamento dei doveri che abbiamo in quanto esseri umani – in primis – e in quanto cittadini – in secundis –, ed è l’oggetto del giudizio politico-morale. La bellezza che figura nel testo del Costituto Senese del 1309 è da declinare secondo tutte queste accezioni; tuttavia, manca di quella componente universale che oggi è imprescindibile e di cui non ci dobbiamo dimenticare: ogni essere umano è garante di un valore inestimabile non in quanto cittadino, ma in quanto persona, valore che deve essere preservato e che il governante, così come tutti i partecipanti alla vita politica di uno stato, non può e non deve mai trascurare nell’esercizio del suo mandato. Perché, se vuole che la città sia “bella”, deve fare in modo che i cittadini, educati alle bellezze politica ed etica, si impegnino a coltivarle e preservarle come virtù, nel rispetto delle leggi scritte e delle leggi non scritte. E come potrebbe il governante fare in modo che i cittadini si impegnino a coltivare e preservare la bellezza nelle sue due declinazioni? Anche questa risposta, così come il concetto di bello, sfugge ad agevoli definizioni; tuttavia, credo che possa cominciare con il dare l’esempio. 


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