Individualismo patogeno, società nel coma
- Rebecca Atzori
- 7 giorni fa
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Quando pensate a Lei, che parole usate per elogiarla? “Lei è autonoma, indipendente, autosufficiente, emancipata, autodeterminata, sicura, resiliente, intraprendente, coraggiosa, libera, consapevole, responsabile, razionale, equilibrata, autodisciplinata, …”. Quando Lei parla di sé stessa però, non ha quest’entusiasmo. Lei ha iniziato a pensare che molti di questi aggettivi non siano necessariamente positivi. Non vuole sottostimarsi, ripete sempre, Lei è fiera della sua individualità. Cresciuta a suon di “devi essere indipendente!” e “non cambiare per nessuno!”, ha costruito una vita intorno a sé stessa soltanto. Gli affetti vanno e vengono, solo tu resti con te tutta la vita, ha sentito ripetere più volte. Lei ha passato anni a crescere, a migliorarsi, capirsi, ad estirpare i propri traumi per ritrovare e costruire il sé autentico. Ha letto tra le righe della sua storia ed ha raggiunto una qualche forma di imperfetta completezza . Ha fatto pace con la sua sensibilità e impulsività, ed ha imparato a dire quei “no” tanto incitati dalla nuova onda di psicologi e psicoterapeuti (e psico-influencer). Lei è consapevole, e mettendo barriere tra sé e gli altri ha rimosso le zavorre dal suo essere e viaggia in un’area sterile, incontaminata, salva dai complessi altrui, pretese e aspettative. Ascolta fiera in cuffia, “vivere senza nessuno e nulla non ci si riesce / chi ce la fa non ha paura di niente”, ritrovandosi in quella categoria di “chi ce la fa". Eppure quando Lei si ritrova in quei rari momenti di silenzio lasciatole per pensare, tolti i rumori dei social media, delle aspettative, dei giudizi, della corsa alla migliore versione di sé, Lei ha paura. Lei si ritrova in quei momenti come vagabonda nella sua sensibilità. Si interroga sul perché nel mondo accade quel che accade – e Lei non capisce, seppure ne comprenda la logica, seppur sia una ragazza in gamba. Lei è empatica e non capisce come di fronte ad atrocità, morte, devastazione la maggior parte del mondo resti indifferente, continui a proseguire con la sua esistenza. Lei stessa va a lavoro ogni giorno, si allena, segue i propri obiettivi, e dorme sonni tranquilli. La sua quotidianità non è scalfita dalle morti oltre i propri confini. Eppure al liceo durante le ore di storia si è chiesta tante volte “ma dov’erano tutti mentre un genocidio era in corso?” e ora si dà una risposta guardando la propria agenda piena di meeting, raccontando agli altri quanto stia facendo qualcosa con un impatto positivo per il mondo.
È in quei momenti tra sé che Lei realizza la sua frustrazione, la sua impotenza di fronte all’impossibilità di arrestare gli avvenimenti, e di averne una voce a riguardo. E con questi pensieri, Lei si sente esistenzialmente sola. Si ritrova spaesata in questa società fatta di individui che hanno smesso di concepire e concepirsi in una comunità, e realizza di essere anche lei un individuo tra loro e nulla di più. Questi pensieri danno forma a quel costante senso di malessere che prova sin dall’adolescenza, e che ha cercato di colmare guardandosi dentro, dimenticandosi di guardare anche fuori. Si sta rendendo conto che quello che le ammala l’anima è l’assenza di un qualcosa fuori dal sé, di uno scopo comune, di condivisione profonda, di somiglianza e appartenenza. Dopo pensieri, letture, scambi, e nuovi pensieri, realizza il suo essere agente patogeno e agente ricettivo al contempo di un batterio moderno, l’individualismo, che ha portato la società intera a trovarsi in uno stato di coma.
Lei riflette su come, in condizioni di salute, una società corrisponde ad una o un insieme di comunità. In esse, le azioni sono dettate da valori condivisi e progetti comuni, con il fine non solo di perpetuarli ma di implementarli in nome di una premura per i futuri membri della comunità stessa. In tali contesti, gli avi, i membri e i discendenti sono posti sullo stesso piano, riconoscendo in essi rispettivamente la conoscenza, l’azione e l'innovazione, e il prodotto della comunità. Una società sana, vedrà in tale prodotto una nuova comunità pronta anch’essa all’azione e innovazione in nome dei propri successori tramite le lezioni dei predecessori. In essa, l’individuo si percepisce come una parte del tutto; in quanto tale, riconosce la propria unicità nel suo contesto e, conseguentemente, il proprio insostituibile ruolo; è da qui che l’individuo trae la propria autostima e l’amore verso se stesso, tramite il proprio scopo all’interno della comunità, e i frutti che esso comporta. Idealmente, tramite correzioni tra pari e pazienza, la società procede verso un’ascesa. La concezione stessa di progresso è intesa come miglioramento delle condizioni di vita e del godimento dei piaceri della stessa dalla comunità. Cosa si intenda per tale miglioramento, è deciso dai valori comuni alla comunità intera.
Qualora la maggior parte degli individui di una società, da agenti della stessa si presentino ed agiscano come fine ultimo della propria esistenza, la società entra in un coma.

L’individuo che vede nella propria limitata esistenza il fine ultimo delle proprie azioni, rendendosi unico ecosistema da accudire, elevandosi al di sopra della stessa comunità, annulla una serie di valori necessari ad una società coesa, compatta e prospera. L’individuo con fine in se stesso svaluta – se non elimina – dalla propria metrica di giudizio tutta quella scala di valori che lo portano a relazionarsi ad altri per fini diversi dal proprio piacere e soddisfacimento: l’empatia, la sensibilità, l’altruismo, la bontà, la gentilezza, la morale stessa sono un corredo di valori inutili all’individuo. Tutte quelle azioni che non hanno un ritorno personale sono automaticamente degradate e attribuite ai residui sociali, considerate perdite di tempo e di potenziale guadagno. Ciò comporta la concentrazione degli sforzi in attività prettamente utilitarie, che recano vantaggi e piaceri alla sola persona e che portano con sé ambizioni temporanee, limitate al singolo tempo di una vita. È in questo scenario che il mondo dell’intrattenimento ha preso il sopravvento tra i mercati globali, dedicando sforzi e denaro nel raggiungere forme temporanee di piacere e goliardia, che non hanno però un potere costruttivo. Le migliori menti dei tempi attuali sono impegnate o nell’usufruire di piaceri o nel creare tali piaceri e piattaforme per la loro diffusione. Ogni mercato si sta spostando verso il temporaneo, la locazione, l’abbonamento: la possibilità di recisione e sostituzione è condizione necessaria al sostegno di questa fidelizzazione a sé stessi. È in questo modo che alcuni dei grandi problemi socioeconomici hanno iniziato a divampare: dall’avvento della fast fashion per soddisfare il bisogno di piacere agli altri e mostrarsi sempre nuovi e diversi, alla produzione di massa che privilegia il sostituibile e un’aspettativa di vita del prodotto poco duratura in nome del profitto, all’improprio smaltimento tal volta impossibile dei rifiuti, allo sfruttamento delle dignità dei lavoratori in nome della garanzia di prezzi ridotti, che inducono ulteriormente sostituibilità e recisione-sostituzione della proprietà. L’elenco potrebbe durare più tempo di quanto la stessa soglia di attenzione — anch’essa vittima del meccanismo di recisione e riduzione di aspettativa di vita di un prodotto, in questo caso l’attenzione — permetta.
Tutto ciò porta a trarre l’unica soddisfazione da se stessi e dal crescere del proprio ego, in una forma di autoerotismo contemporaneo in cui nuovi ermafroditi inneggiano ad un’indipendenza radicale divinizzata, per cui più sei indipendente dalla comunità e “auto-utilitario”, più ti senti potente e gonfi il petto, più ti senti invincibile e alzi il mento, più ti senti Dio e istituisci un nuovo sistema di valori.
Il tutto accompagnato dalla nuova religione planetaria dei seguaci del Dio Denaro, lubrificante della masturbazione dell’ultra-individuo.
Con questa mentalità, la società non può migliorare. Se ogni individuo al mondo non è in grado di concepire azioni che gli sopravvivranno, la società può nel migliore delle ipotesi rimanere in un bilancio neutro, lo stato di coma. Di tanto in tanto si avvertono movimenti parossistici, come una nuova tecnologia, una riforma governativa, o qualche manifestazione di solidarietà. Ma ciò non indica necessariamente una ripresa della coscienza o una prognosi positiva della società in coma; al contrario, questi spasmi vanno spesso ad alimentare questa condizione, illudendo i più di un progresso in corso, limitando così le iniziative verso il recupero. Prendiamo le recenti manifestazioni pro-Palestina nel nostro Bel Paese. I primi di ottobre, almeno qualche centinaia di migliaia (la CGIL parla di due milioni) di persone si sono radunate in diverse città italiane per manifestare il proprio sostegno al popolo Palestinese e alla nascita di uno Stato che gli appartenga, al contempo protestando contro il silenzio e l’inattività del governo di fronte a un accertato genocidio in corso per mano dello Stato di Israele. Per un giorno, un enorme numero di individui ha scelto l’azione collettiva mossa dai propri valori e dall’umanità, in nome di una linea rossa che è stata superata da Israele, dal governo italiano, dai governi occidentali, e non solo. Per un giorno, persone di diverse religioni, etnie, età, sessi, generi, orientamenti sessuali, professioni, inclinazioni, credenze si sono unite per amplificare la propria voce, i propri “sì” e i propri “no”. Per un giorno, i cittadini italiani si sono resi conto che essere cittadini comporta diritti quanti doveri, e che accettando ciò che viene fatto a qualcun altro tacitamente acconsentiamo perché un giorno venga a fatto a qualcuno di noi. Per un giorno, tanti io-ecosistemi (ego-sistemi) hanno ricordato che il noi-ecosistema è in grado di superare l’impotenza, il silenzio e la frustrazione che caratterizzano Lei. Ed è perciò vero che questa consapevolezza è di fatto dormiente negli “io” moderni, altrimenti una manifestazione di tale portata sarebbe stata impensabile e mai concretizzata. Tuttavia, questo slancio collettivo è durato il tempo di un titolo di giornale, il tempo della nostra nuova soglia di attenzione. Abbiamo gridato “vittoria!” di fronte a un finto cessate il fuoco, e nonostante civili continuino a morire quotidianamente a Gaza e nei territori occupati palestinesi, non c’è più stata ombra, non c’è più stato un grido – né tantomeno un sospiro – di quello sforzo collettivo, comunitario, che sembrava averci ricordato che cosa vuol dire essere in una società fatta di un “noi” e non di tanti “io”. Abbiamo preso la gratificazione effimera che caratterizza questa società in coma, ci siamo de-responsabilizzati con questo gesto sì, toccante, ma non sicuramente sufficiente al vero cambiamento o impatto desiderato. Il giorno dopo lo sciopero nazionale, gli individui si sono risvegliati nelle loro bolle composte solo da sé stessi e ciò che favorisce i propri interessi, e così hanno reso di fatto le manifestazioni uno spasmo involontario dal coma, e non un primo segnale di ripresa. A un mese dalle manifestazioni, chi muove le pedine dello scacchiere internazionale continua a mentire, deridere, e ignorare i pochi che protestano quotidianamente in svariate forme; civili continuano ad essere straziati, senza una casa, senza uno Stato, e senza un futuro, con fame, rabbia e disperazione crescenti; e gli “io” sono ritornati alla loro quotidianità, a concentrarsi su se stessi soltanto, dopo aver comprato un etto di prosciutto “il-4-ottobre-io-ero-in-piazza” ed esserselo piacevolmente posato sugli occhi, dopo averlo rigorosamente postato sui vari social. Tra gli altri spasmi involontari, troviamo infatti [proprio l’avvento dei social media: nonostante la promessa di una rapida e illimitata circolazione delle informazioni e di connessioni nel mondo, e della conseguente incrementata conoscenza e presunto abbattimento di barriere e discriminazioni,i social media stanno invece dimostrando esternalità negative che superano i loro intenzionali effetti positivi. Per menzionarne alcune: disinformazione dilagante e manipolatoria, aumento nella polarizzazione delle masse e conseguenti estremismi, aumentata pressione sociale in termini di apparenza e di performance— con aumento di disturbi psichici —, aumentata percezione di solitudine (paradossale rispetto all’effettivo aumento di connessione). L’enorme potenziale d’influenza di tali piattaforme risulta sprecato poiché sottomesso alla logica del profitto. Il suo stesso pioniere, Zuckerberg, potrebbe essere tra le menti trainanti verso una maggiore coesione sociale, mentre è invece anche lui vittima dell’onda individualista, accecato dal proprio patrimonio netto (stimato) di 258.7 miliardi di dollari americani. In nome di questo potere ottenuto, piuttosto che onorare la promessa di progresso in linea coi bisogni effettivi della comunità (promessa con cui è riuscito in primo luogo a portare a sé e al neonato Facebook investitori), Zuckerberg – insieme a tanti altri magnati dei social media – decide quotidianamente di perpetuare cellule tumorali nella società, appunto disinformazione, polarizzazione, preferenza del virale al veritiero. Con i mezzi, piattaforme e risonanza a sua disposizione, lui e la sua azienda possiedono un potere trasformativo inestimabile, in grado di portare alle generazioni future sollievo e dignità su larga scala. Gli utenti che utilizzano tali piattaforme potrebbero anche loro sfruttarle per il bene della comunità, se questa ancora sfiorasse la loro mente. Invece no, i social media si sono resi vetrine dell’io, delle strategie che rendono profitto e vantaggi all’io, del coma sociale stesso. È davanti agli occhi di tutti, e tutti scelgono – più o meno consapevolmente – di ignorarlo. La ricerca instancabile del profitto — che non è mai abbastanza in quest’ottica individualistica — e l’ingigantimento dell’ego portano alla degradazione dei valori morali collettivi, in favore del singolo e della sua singola vita, dirottando i valori delle masse verso gli stessi valori egoistico individualistici che portano un’intera società al coma.
Questa descrizione si pone all’estremo di un individualismo egoista che divampa ai giorni nostri. Si veda bene dal dire che ogni forma di individualismo sia nociva; al contrario, quell’individualismo che concepisce i diritti fondamentali dell’uomo (diritto di opinione, di espressione, di scelta, di disporre di proprietà, e via dicendo) è anch’esso funzionale alla comunità, qualora vi resti qualche forma di altruismo, indirizzando almeno in parte questi diritti verso il prossimo (e non contro il prossimo) e verso un futuro significativo, piuttosto che dirigerli verso sé stessi e nel frame di una vita individuale. Al contrario, bisogna sottolineare come l’individualismo altruista sia di fondamentale importanza in quel processo innovativo della società. La differenza giace nel fine ultimo di questo processo. È con questo individualismo altruista che i pensieri in opposizione al sistema individualista sono possibili, seppure in minoranza. Di fatto, in questo scenario, rimane poco spazio per chi mantiene i valori della comunità nel cuore e nelle azioni. Colui che nel contesto di una società in coma si sforza e si attiva alla ricerca di ulteriori tali sforzi sotto forma di sussidi, finanziamenti e possibilità, per progetti e attività costruttive e collettive, e che cerca di dedicare la propria vita alla comunità e ad un impatto duraturo, vive come Lei. Vive di frustrazione, invisibilità e senso di solitudine. Vive in un dubitare di sé costante, a causa del disallineamento tra i valori comunitari e quelli individualistici, dinamiche ben note a Lei. Naviga alla ricerca di suoi simili, sempre più rari dopo che molti hanno ceduto alla logica individualista, un po’ per sfinimento, un po’ per debolezza, un po’ per conseguenza di un sistema cambiato, che plasma e ridirige il pensiero. Lotta contro il sistema imposto con micro-ribellioni alla superficialità del coma.
Lei si chiede spesso che senso abbia lottare così tanto, resistere a un movimento di massa. E forse questo sentirsi esausti di lottare è il primo segno di assorbimento a questa mentalità individualistica che non le appartiene. La solitudine percepita aumenta la voglia di ricongiungersi agli altri individui in un sentore di comunità, comunità composta da individualismi, che gran paradosso! Eppure sa che Lei e chi come lei sono gli unici in grado di riportare la società all’attività, alla coscienza. Queste persone sono i pochi medici della società rimasti che non hanno perso la speranza e continuano ad operare secondo il giuramento di Ippocrate, e che possono risvegliare la società da questo coma, prima che il coma diventi morte. È necessaria una vetrina per chi è come Lei. C’è il bisogno esistenziale di portare insieme queste voci isolate e farle risonare per riportare la società alla vita. In fin dei conti, quel che tutti vogliono sono affetti, esperienze, meraviglie. Ciò è possibile solamente in una comunità. Anche i più grandi esaltatori dell’’individualismo e del dio Denaro si ritrovano a usare il loro potere per circondarsi di persone, per fare scoperte da esporre ad altri, fare esperienze nuove da poter raccontare e mostrare sempre agli altri. Anche il prodotto finale del più grande degli egocentrici individualisti rimane in rapporto a qualcuno al di fuori di se stesso. La componente societaria e comunitaria è ancora in vita seppur dormiente, e persone come Lei devono unirsi e risvegliarla, come un monito per i più che hanno abbandonato l’idea e si sono arresi all’apparente inevitabilità di questa nuova condizione.

Individualismo patogeno, società nel coma






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