Pensare come il bagnasciuga
- Gianmaria D'Alessandro
- 26 nov
- Tempo di lettura: 7 min

Uno dei grandi problemi della cultura di oggi sta anche nella banalizzazione dell’estetica a semplice e riduttiva indagine che riguarderebbe il bello, la suggestività, la purezza del momento e tutte queste boiate da fricchettoni.
A ben vederla, invece, la bellezza dell’estetica (intesa filosoficamente e quindi anche etimologicamente come aisthesis, e non da #aesthetics sotto un post) diventa lo studio del punto di incontro tra pensiero e sensibilità, tra significato e sensazione, tra senso e percezione, tra giudizio e mondo.
È cioè quella parte di pensiero che, per essere tale, non può staccarsi dall’esperienza, dalla pratica; quella che gli studiosi chiamerebbero praxis nel suo senso aristotelico: cioè un fare che non ha fine esterno ma che coincide con l’esperienza stessa del fare e del sentire; è pensiero che si fa gesto, teoria che si fa tocco, sapere che accade nell’agire.
Il suo terreno è più vicino a quello di un mare che di un suolo. Definirlo, cioè racchiuderlo, significa inevitabilmente perderne una parte, probabilmente la più importante, che non è altro che la sua costitutiva fluidità; farlo fino in fondo sarebbe bloccare il suo irrompente potere innovativo che, con la sua dinamicità, rifiuta gli a priori volti a dominare e semplificare la sorpresa che il reale inevitabilmente instaura nell’esperienza conscia e inconscia di ognuno.
L’estetica è quindi un punto di incontro, e non è dunque nient’altro che un modo di relazionarsi con l’esistente in modo immanente e non trascendente, che gode dell’imprevisto e si nutre della contraddittorietà dei limiti del nostro percepito; è volendoli oltrepassare, con la consapevolezza dell’impossibilità di tale scopo, che si può gioire autenticamente di un pensiero che può, e che deve a tutti gli effetti, dirsi vivo, in movimento, sempre con l’orecchio proteso (non prostrato) verso il contingente, verso un darsi delle cose che sfugge agli occhi del razionale.
E attenzione: contraddittorio, in estetica, non è l’opposto di coerente; ma il coerente rischia di diventare contraddittorio se diventa legge, se si impone come regola. In effetti, la regola anticipa, ma la creatività scappa sempre da dove meno uno se l’aspetta.
L’estetica, quindi, non può che essere una forma di fare-sapere (poiein/gnosein), che mantiene una sua origine selvaggia, in cui però teoresi e prassi possono diventare un tutt’uno mai del tutto instaurabile in modo esaustivo ed afferrabile con sicurezza da parte di mani e menti di un qualsivoglia soggetto. Se fosse così (afferrabile), non potrebbe che ergersi a tecnica, perdendo così la sua più propria caratteristica, che è la meraviglia: quello che i Greci chiamavano thauma.
Se noi, promotori del possibile e critici del quotidiano, crediamo veramente nel potere rivoluzionario della cultura, il nostro pensiero si deve volere estetico, in quanto è quest’idea del non totale controllo e dominio della realtà che vuole diventare il motore della nostra ricerca e del nostro impegno nel progettare e attualizzare un’altra modalità del vivere.
Dopo averla sparata così grossa, effettivamente le domande sono più di una: direi almeno due sono importanti da affrontare nello spazio di questa limitata riflessione.
La prima: come facciamo a dare forma alle idee?
E, importantissimo, la seconda: chi sono i pazzi, gli idioti, che credono in ciò? (In quanto oggi solo un tale crede che il possibile sia veramente possibile e non solo un sogno.)
Dare forma alle idee (sempre nel senso di un pensiero che quindi si riconosce come intrinsecamente debole, mai capace di raggiungere la totalità delle sue aspettative e dei suoi presupposti) significa riconoscerne la parzialità e la costitutiva paradossalità: il dire qualcosa è ucciderlo, perché è fermarlo, e quindi è estrarlo dal contatto con l’ontologico fluire del tutto.
È un separare una qualunque cosa dalle sue innumerevoli e mutabili relazioni con l’ambiente di cui ogni cosa è debitrice; in effetti, in un singolo giudizio, come potrebbero mai essere racchiuse tutte le prospettive che compongono un qualsivoglia fenomeno?
Dare forma in modo non violento significa quindi, innanzitutto, rinunciare all’idea di punto finale, di un processo che si compie una volta per tutte, di raggiungere un sapere esaustivo e quindi semplificante.
E penso che sia utile ribadirlo: il pensiero estetico è quella branca del pensiero che vuole allontanarsi dall’assoluto, privilegiando quel continuo scambio con il reale che, di volta in volta, ci circonda.
E con questo possiamo quindi riconnetterci alla seconda domanda.
L’idiota è colui che sa muoversi nella propria impotenza e che riesce a trasformarla in opportunità per completarsi con gli altri, e più corretto sarebbe dire addirittura con l’Altro.
È colui che è sicuro della propria incompletezza, che sa genuinamente di non sapere, patendolo nel suo senso più intimo e corporeo, che lo riconosce e ritrova in ogni fibra del suo corpo, che lo respira ogni qualvolta sta per sputare un qualunque giudizio sul mondo.
E quindi, se noi, insieme, veramente abbiamo intenzione di cambiare un po’ le regole di questo gioco nel quale siamo immersi, nel nostro modo di relazionarci tra di noi queste riflessioni non possono assolutamente mancare.
E, visto che l’intento non è di fare solo pensieri, non possiamo permetterci di lasciarli soltanto tali: diventerebbero pura masturbazione.
Il trovare i modi su come dargli una forma concreta e tangibile è l’unica sfida che, da lui, se un dio esiste, ci è stata regalata.
Scherzosamente potremmo dire che una certa storia dell’umanità sia stata (giustamente o ingiustamente) questa sfida, e che tramite essa si siano raggiunte le più virtuose altezze e le più degradanti bassezze.
Forse c’è bisogno che però qualcuno ricominci a prenderla sul serio; e chi, se non i pazzi e gli idioti che non hanno nessuna intenzione di dare legittimità a questo mondo e al modo in cui lo si continua a trattare?
Scapigliati di tutti i tipi, dobbiamo pensarci in grado di intraprendere con forza e coraggio tale prova.
Fare solo pensiero – cioè racchiudersi in mille castelli fatti della più pura teoria – è, in fin dei conti, non credere nel pensiero stesso e nella sua più grande, e per questo anche pericolosa, facoltà: trasformare l’esistente.
E, se vogliamo fare cambiamenti veri e propri, non possiamo bearci di ripeterci a vicenda tali pensieri: se non riusciamo a dargli consistenza, ci stiamo soltanto prendendo in giro da soli.
Ciò significa anche, “banalmente”, concretizzarli nel come organizziamo le nostre giornate: questo è un terreno di battaglia da cui non possiamo abdicare, in quanto tanto del male di questo mondo è dato anche da come lo si è ordinato, dalla forma e dalla gerarchia con cui si sono instaurate le relazioni tra gli esseri.
Anzi, impostarle in un certo modo ci permette anche di salvarci dal rischio di perdere determinate spinte, e far sì che quasi da soli questi pensieri possano emergere da una pratica, da un concreto relazionarsi reciproco; facendo così, ci assicuriamo che sia la pratica a essere generatrice e salvaguardia di un pensiero, di una teoria che vuole mettere in questione le logiche di questo mondo.
Parlavamo prima di mare, ma forse, per dispiegare meglio questo pensiero, e rimanere ancorati alla concettualità e all’immaginario del liquido e del mutevole, più che di un mare bisognerebbe parlare di quella linea sempre mobile che si instaura – anzi, che è – il bagnasciuga.
Quel confine che non conosce tregua tra mare e costa, spostato dall’infinita co-implicazione di forze e di opposti; un limite mosso dalla luna e dalle sue maree, dalla rotazione della Terra e dalla gravità del Sole, dai terremoti e dalle burrasche, dall’erosione del suolo e dal riscaldamento climatico, dalle nostre costruzioni e stabilimenti di tutti i tipi.
Questo potentissimo modo di significare Linea, questo modo di essere cioè confusi con il tutto, è una grande opportunità per un pensiero che vuole convivere non soltanto con gli opposti, ma con la molteplicità degli opposti; un pensiero che mantenga la partizione intrinseca alla capacità di discernere dell’umano (il fare compartimenti, il tracciare linee, il distinguere), ma che la espanda in un senso non prettamente logico e risolutivo, secondo la forma della dicotomia e secondo le regole del linguaggio volte a stabilizzare un reale che invece si dà solo in virtù del suo movimento e della sua transitorietà.
Nei confronti dell’avvenire, e del suo essere pluralità e co-involgimento, una staticità che cerchi l’essere definito, e quindi l’essere distante e distinto (invece del continuo definirsi e ridefinirsi), ne è il suo più grande nemico.
Ovviamente sono solo parole: il bagnasciuga è sicuramente soltanto una rapida metafora per esprimere il pensiero estetico; il tentativo, però, è quello di riuscire a esporre un fare dell’essere umano che smette di sentirsi così tanto umano (“umano, troppo umano”, diceva un nostro amico), cioè far vedere come forse tanti dei nostri pensieri che crediamo necessari lo siano solo per un certo modo di essere degli umani, un modo che si evince nei confronti di una certa storia, di un certo produrre, che si impone sulla natura e sugli altri, che ci fa prendere la strada più facile e già battuta al posto di cercarne una nuova.
Bene: la nostra sfida, se veramente credessimo in noi stessi e nell’umanità, dovrebbe essere quella di un costruire diverso; costruire non sulla terra, come abbiamo sempre fatto, o sul bagnasciuga, come hanno fatto alcuni, ma sul mare, o meglio ancora con il mare e forse addirittura – similitudine permettendo – come il mare.
Dato che è da esso che è nata la più ricca e differenziata architettura che l’universo potesse offrirci: la Vita.
Un pensiero e un fare, quindi, che vedano nella difficoltà e nell’impedimento la propria materia, la propria forza: l’arma che permette di migliorarsi, obbligandoci a non essere mai soltanto noi stessi, piccoli e chiusi come conchiglie, ma a mettere in difficoltà quel metafisico “sé stessi” che risulta essere soltanto un limite particolarmente sterile nei confronti della straordinaria creatività del vivente.
Il pensiero è un po’ più grande quando non rimane soltanto nella solitudine della propria testa, ma quando accade tra noi e il mondo; quando si intreccia con quel tutto di cui siamo fatti tutti.
È in questo accadere condiviso, in questo pensare che non appartiene a nessuno ma che attraversa, che possiamo riconoscere la sua forma più viva e più nostra.
E forse, su questo, possiamo davvero salutarci: sapendo che il pensiero non finisce qui, ma continua a muoversi nel mondo, tra noi, come il mare sulla sua linea inquieta.
Quando sapremo pensare come il bagnasciuga finalmente potremmo costruire sul mare.







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