top of page

IO DA GRANDE VOLEVO ESSERE QUALCUNO

Aggiornamento: 23 ago

Io da grande volevo essere qualcuno

Io da grande volevo essere qualcuno

C’è un ricordo di infanzia non troppo caratteristico. Uno di quei flashback che appartengono alla memoria collettiva, perché l’essere umano non spicca in originalità quando deve educarne un altro. Il nostro ragionamento affonda in questo limaccio le sue fragili radici. Da quando a un certo punto della mia infanzia, poi adolescenza, poi età del risveglio, qualcuno ha deciso di schiaffeggiarmi con la domanda delle domande: cosa vuoi fare da grande? Mi sono accorto soltanto dopo, a distanza di anni e qualche consapevolezza in più, che la mia risposta si è evoluta nel tempo. A seconda dell’impatto psicologico che poi avrebbe avuto su di me il ripensare a quel momento. Da vero antropologo appena autoproclamatomi, dividerò in quattro momenti, o fasi, se vogliamo abbozzare un minimo di tecnicismo, questa evoluzione. Si accorgerà ben presto, il lettore, che non stiamo parlando di una linea retta che non si interrompe prima dell’infinito, ma di un cerchio che si chiude. Il perché non si farà fatica ad afferrarlo. 


La prima fase è quella del bambino (chiamarla del fanciullino sarebbe stata appropriazione indebita e vilipendio), ma il concetto cardine non si discosta molto. Mi sono accorto precocemente, e a loro discapito lo hanno intuito anche le persone intorno a me, che nella vita la concretezza non sarebbe mai stato il mio quid in più. Anzi, a dirla tutta, qualcuno si era già tristemente accorto che sarei stato un idealista. “Inconcludente”, avrebbe aggiunto qualche anno dopo. La mia risposta era sempre precisa e puntuale: io da grande voglio fare il poeta. Non perché sapessi nello specifico di cosa si occupi un poeta - purtroppo o per fortuna non l’ho ancora capito - ma perché la rima mi aveva restituito qualcosa. Era il surrealismo, la fuga dalla realtà. Cominciavo a capire che la dimensione fisica dell’uomo non è mai l’unica possibile. Cominciavo a immaginarne altre e la poesia mi sembrava un mezzo alquanto fruibile per barcamenarmi in questo trip pre-adolescenziale. La seconda fase è quella del terremoto, la più confusa e confusionaria. A questo punto mi ero reso conto che ci fosse ben poco che non mi avesse già stancato. La poesia era già acqua passata. E quindi il musicista, perché fondamentalmente la musica era sempre stata il filo conduttore. E poi mi andava, quindi perché no. Sono i due periodi più genuini. Se vogliamo, quelli della disillusione. 


È nella terza fase che proviamo a districare il vero nodo, quello generazionale. Perché è proprio in questo momento post adolescenza che subentra la pressione sociale. In una società/esercito che addestra i propri cadetti alla competizione forsennata, il primo vero scoglio è la scelta universitaria. Sempre seguendo il canovaccio di questa serie di riflessioni, chi scrive parlerà di sé stesso. Chissà che chi legge non possa riconoscersi in queste righe. Mea culpa, l’ho fatto: ho scelto una facoltà di quelle che “ti danno sbocchi”. Il perché sta nel contesto. Arrivava veloce e dirompente come un treno il momento in cui sei costretto a familiarizzare e poi ad abbracciare un concetto distruttivo: io da grande voglio essere qualcuno. E chissà perché, nell’epoca del capitale come bussola, quel “qualcuno” è sempre legato a fattori economici, finanziari, imprenditoriali. A un certo punto della mia vita mi sono ritrovato circondato da tanti piccoli androidi che inseguivano il sogno: realizzarsi. Non come individui, ma come parte di un meccanismo tossico. Tutti in fila ad aspettare il momento in cui la vita restituisce in termini di soldi e benessere instagrammabile. Perché parliamoci chiaro, di quello si tratta. C’ero dentro fino al collo. A chiunque mi chiedesse cosa volessi fare da grande rispondevo con strane congetture da startupper in erba che Zuckerberg ai tempi di Harvard levati. La verità? Io non sapevo più cosa volessi fare da grande, sapevo soltanto che volevo diventare qualcuno, come tutti quelli che mi circondavano. Chi l’ha deciso al posto mio? Il contesto sociale. La logica della competizione e del piede schiacciato sull’acceleratore verso chissà quale cazzo di obiettivo strategico. Tutto fumo, nient’altro, ma mi faceva sentire utile alla causa. Quale fosse questa causa ancora mi viene difficile capirlo, ma era così. 


Correre, correre senza fermarsi a rifiatare. Farlo notare a tutti che questo piccolo bastardo qui sta lavorando sodo per il futuro. Per un posto di rilievo ovviamente, perché siamo tutti proiettati verso un posto di rilievo e guai a chi prova a ipotizzare un’alternativa. A volte mi chiedo come farà l’anima del mondo a destinare a ciascuno un ruolo da protagonista. Saremo tutti protagonisti in questo copione, delle comparse chi se ne frega. Scompariranno magicamente. Tutti stanno facendo qualcosa di importante, e se non è importante lo diventa grazie alla sovraesposizione. Se non mi piace quello che sto facendo, mi piaceranno i risultati che otterrò. E mi piacerà mostrarli, quei risultati. 


Non è difficile azzardare una profezia: il castello di sabbia crollerà. Perché il momento storico è orfano di certezze, di capisaldi, di un sistema valoriale forte e radicato nelle coscienze. L’ansia è nostra matrigna e continuare a ripetere agli altri e a noi stessi di voler diventare qualcuno anche se non si vuole diventare qualcuno non ci ha aiutato a scacciarla. Ha propiziato l’effetto contrario, ha rafforzato il suo abbraccio malefico trasformandolo in una morsa. Ora l’ansia ci governa, ci ha addomesticati, anche se non lo volevamo.  

La quarta e ultima (si spera) fase è quella terapeutica. Quella dell’accettazione. Chi scrive ha già provato a infilarlo un piede in questa porta. 

Io ancora non l’ho capito chi voglio essere da grande, ma ho capito cosa voglio fare: smettere di competere. Ho capito di non voler essere parte del grande meccanismo. Ora io lo so: voglio accontentarmi. Della semplicità, di tutto quello che è salvifico. Per me stesso e per le anime che mi circondano. Per troppo tempo ho inseguito un sogno che non era il mio, una chimera costruita dalle logiche controverse che regolano il tempo in cui vivo. Io da grande voglio essere me stesso e non quello che il sistema ha stabilito per me. Vivere di ideali, da ribelle silenzioso. 


Non c’è posto per tutti nella grande giostra del “diventare qualcuno”. Io il mio lo cedo volentieri al prossimo fortunato vincitore. Perché la mia impresa eccezionale, datemi retta, sarà essere normale.


Venti Generazionali

Io da grande volevo essere qualcuno.


Commenti


© 2025 L' Idiot All rights reserved

bottom of page