SEMAFORO ROSSO
- Giancarlo Garnei
- 9 lug
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 29 lug

Semaforo rosso, mi ero fermato. A bordo della mia Toyota si respirava puzza di merda: stavo lavorando, avevo praticamente finito. Pensai: “Corro, mi infilo in palestra e vado dritto a casa”. Anche se era giovedì, quella sera saremmo dovuti andare a sentire della musica in un locale in centro verso le undici. Fu però dopo, quando avevo finito gli esercizi, che mi arrivarono mille chiamate di Bruno: “Cobra dove sei? A cena facciamo qualcosa?”. Io che, dal canto mio, avevo realizzato di essere stato un po’ depresso negli ultimi cinque mesi, accettai senza riserve. Esco dalla palestra e scruto - dove si è messo? Stava sostando di traverso sulle strisce pedonali dove c’era un semaforo rosso con delle macchine ferme, che aspettavano il verde. Neanche a dirlo, lo raggiungo insieme ad una pioggia di clacson. Apro lo sportello: rideva, stava sentendo Nicolò Paganini, che spettacolare idiota. In mano aveva due bottiglie di vino aperte, e mi fa: “sono andato ad una degustazione di vino uagliò, queste ce le beviamo a cena”, “bene, allora andiamo a cena da me” gli rispondo io.
Dopo aver mangiato andiamo camminando verso il teatro, sparando una marea di cazzate durante il tragitto: figa, calcio, di come si facesse il gelato. Lui aveva da poco rilevato un bar gelateria, quindi mi stava spiegando come produceva il suo gelato, e che lo avrebbe venduto anche con un food truck, oltre che al bar. Il prodotto finale si sarebbe chiamato “Bruno’s cream”; poi abbiamo affrontato una rapida discussione su Marx e in particolare su chi fosse il “vero” filosofo dell’800, poi siamo arrivati. Cazzo, solo a cena avevamo finito quattro bottiglie di vino in due, due bianchi e due rossi, e poi tre quattro bicchieri a testa di whisky mentre fumavamo una canna in balcone. Pensavo di essere già ubriaco e invece stavo reggendo bene, me ne accorsi usciti di casa dopo aver solcato i primi passi. Avevamo appuntamento con gli altri, ma quando siamo arrivati, eravamo i primi.

In questi venti minuti:
Un’altra bottiglia di vino, e finiamo anche quella, cosa, questa, che non mi aspettavo, pensavo l’avrebbero bevuta tutti – non avevo ancora capito. Poi si sono avvicinate due donne di quarant’anni, sospette, che infatti cercavano da noi la cocaina, ci hanno anche offerto di fare sesso. Io per un attimo ho temuto che Bruno accettasse, erano due tossiche senza capelli, né denti. Sarà stato quasi lo scadere dei 20 minuti, quando entra il famigerato attore romano Riccardo Scamarcio. Lui, Bruno, non perde tempo, sembrava stesse aspettando proprio quello; Si alza, veloce, va al bancone e si piazza accanto ai gomiti dell’attore e dice: “Riccà, mi devi dire una cosa. Ma sincero però… Ma quante ne hai ficcate?". L'occhio di Bruno era 100% partenopeo in quel momento, nel chiedere quella precisa domanda, tanto che Scamarcio gli chiese se fosse napoletano. “Affermativo” aveva risposto Bruno. Io già ridevo, non poteva nascondersi. Mi diverte molto uscire insieme a Bruno perché è pazzo, non è uno di quelli che rimane al tavolo a bere un drink dopo l’altro. È dinamico lui, ha sempre una scaletta di cose da fare, anche quando esce. Entrambi, mentre Scamarcio parlava, stavamo guardavamo l’orologio, a fine serata ci siamo confessati il sottile desiderio di sfilarglielo: avremmo potuto senza grossi problemi.
Cazzo, era arrivato il caldo in città e Roma si stava riscoprendo: serate all’aperto, giardini, posti bellissimi – a Roma in estate puoi addirittura andare a sentire la musica alle fottute terme di Caracalla: questa città si rianima. Noi invece eravamo al chiuso, in un locale “invernale”, dove si fuma dentro, a sudare.
Al ventesimo, sempre del primo tempo, eccolo, Valerio. Ci aveva beccati fuori a fumare una sigaretta, non gliela facevamo più dal caldo e quindi eravamo usciti. Valerio prende la strada stretta del bar con il motorino a tipo 70 all’ora, e frena ad un centimetro da Bruno, che era talmente ubriaco che avrebbe preso il motorino in faccia senza battere ciglio, e io con lui.
Bruno, per esempio, erano anni che non si fidanzava, poteva apparire un personaggio superficiale, ma non lo era: si era fidanzato una sola volta seriamente e quella volta avevo visto un uomo innamorato. Poi non penso gli sia più successo. Ora aveva una specie di ragazza, ma che secondo noi tutti era solo una “sbroccata temporanea”. Mi aveva detto più di una volta, almeno tre, di aver visto il diavolo in faccia. Era iniziata poi per lui da un mese a questa parte una specie di rehab: poca o quasi niente droga, alcol molto, attività fisica almeno una volta al giorno, pesi, e in questo trambusto aveva conosciuto questa tipa. Mi aveva rimproverato per due mesi perché avevo avuto una donna, in un modo che lui forse considerava fisso, ma che in realtà era una semplice frequentazione e diceva: “Il Cobra ha trovato pane per i suoi denti, e chi lo vede più?”, e mi faceva il verso poi: “Stasera sul tardi non ci sono, vado via per mezzanotte, forse l’una”, e giù di risate. Lui ovviamente sapeva che ero la sua spalla destra, anche se non aveva bisogno di una spalla per rimorchiare, però andandomene a mezzanotte, non aveva più un compare con cui fare mattina. Diciamo che ora con questa nuova tipa mi ripagava con la stessa moneta. Tutto ciò comunque non frenava la sua sete di figa: poteva avere la febbre, essere ferito, fidanzato, senza macchina, senza un euro, ma comunque nulla lo avrebbe fermato dalla sua missione. Sembrava che quella sera volesse bere la figa e scopare l’alcol per i ritmi che avevamo preso.
Valerio era tranquillo invece, il medico gli aveva detto di stare a riposo. Era da un po’ che mi parlava di come stesse capendo piano piano come regolarsi e non abbandonarsi alla sua sete serale quotidiana. Era un uomo pieno di interrogativi, questa era una delle cose che ammiravo di più di lui. Aveva come una rete mentale in cui intrappolava e intrecciava per giorni queste sue domande, fino a fagocitarle. Alcune volte lo avevo visto schiavo delle sue domande e in quei momenti poteva solo rispondersi, non poteva pensare a nient’altro. Queste sue domande erano di diversa natura, alcune esistenziali: stava capendo per quale cazzo di motivo voleva morire vivendo al massimo, altre più semplicemente di economia o politica.

Poco dopo ci raggiungono tutti, amici e amiche. Qualcuno mancava, ovvio, manca sempre qualcuno purtroppo: chi viveva a Milano, chi in Belgio, chi a Buenos Aires. Dei presenti però non mancava nessuno.
Sarà stato il 35’ di quella “partita”, ormai la percepivo come una finale di coppa, quando becco Brunello al bancone a lavorare. Aveva abbordato due ragazze americane con il “savoir faire” che solo lui possedeva. Cazzo, sapendo prima a che cosa saremmo andati incontro mi sarei legato le mani.
Comincia così una piacevole conversazione con queste due. Avevamo la situazione in pugno: i drink giusti, le frasi giuste, le facce giuste. Erano nostre. Poveri idioti!
“Bene, andiamo a far vedere Roma a queste straniere” dico io. Bruno che uomo d’azione; apre il frigo del bar dove stavamo con queste, prende una bottiglia di vino, richiude il frigo e poi esce. Rigorosamente senza pagare. Questa bottiglia ce la beviamo alla fontana dell’acqua Paola, dove c’eravamo solo noi: le ragazze si erano levate le scarpe e camminavano sulla cinta in marmo bianco che cingeva la fontana, di fronte a noi Roma nuda. Dopo aver finito quella bottiglia, e dopo aver guardato roma ancora un po’, andiamo verso casa mia. Entro in casa e mi metto subito a preparare quattro Vodka tonici. Avevo tutto: shaker, cucchiaini, dosatori. Bruno accende lo stereo e mette la cumbia. Ci muovevamo all’unisono in un’armonia perfetta. Musica, sigari e sigarette. Nella promiscuità più totale, vedo Bruno alla fine della stanza cadere sulle ginocchia e poi a faccia avanti sul parquet. Headshot: “Oh cazzo”, esclamo io, e poi precipito.
Inizio secondo tempo: quando la partita si fa dura, si sa.
Ore 10:00 del mattino.
Quando ci siamo svegliati la mattina sembravamo degli ebeti: bianchi, non scandivamo bene le parole, in bocca un saporaccio, e soprattutto, ci muovevamo a rallentatore. Bruno sembrava divertito dalla situazione, aveva già capito tutto il bastardo. Io non avevo ancora compreso bene cosa fosse successo e quando se ne accorse mi fece: “Ti hanno derubato Lorè”, e rideva. Io stavo difficilmente cercando di riflettere, mi barcamenavo tra mille pensieri. Perché hanno derubato solo me e non anche lui? Lui rideva, continuava, io mi stavo cominciando ad incazzare e gli dico: “Ma di che parli?”, e lui rideva ancora più forte mentre giocherellava con le chiavi della macchina. “Caro Cobra, vedi, io ieri sera ero talmente ubriaco che ho lasciato portafoglio e telefono dentro la macchina quando ho parcheggiato e siamo saliti da te”. Lì mi si è chiusa la vena, è partita una zuffa a rallentatore a causa della droga che ci avevano somministrato la sera prima; penso di averlo insultato in tutte le lingue. Mi sentivo più coglione di lui. Non so perché ma avrei preferito che avessero derubato anche lui: mal comune mezzo gaudio.
Beffardo come mai nei confronti della fortuna, Bruno mi accompagnò al primo distretto di polizia per denunciare l’accaduto, anche se lui non era molto d’accordo e mi continuava a ripetere di non parlare con la polizia. Mi aveva aspettato fuori, seduto in macchina parcheggiato in strada, mi aveva detto: “Ma che sei matto, io non ci entro là dentro Lorè”. Mi stava facendo passare la rabbia. Il suo modo di prendere la vita con leggerezza era una cosa che ammiravo moltissimo nei momenti in cui mi sentivo spezzato, e questo era uno di quelli. Mi sentivo stupido e immaturo, lui invece aveva il petto gonfio e non gliene fregava un cazzo: ricordo che la mattina io avevo premura di capire quale fosse la droga che ci avevano somministrato a nostra insaputa, e lui di tutta risposta voleva fare colazione.
Ora però ero rimasto solo, e nel silenzio che segue l’ultima bottiglia vuota e l’ultimo grido soffocato resta solo la vergogna. Non quella che arrossa le guance, ma quella che scava dentro, che pesa sul petto come un piombo, ha il volto di ogni errore, il suono di ogni pugno dato per troppo poco. La vergogna non dimentica, non perdona: si siede accanto a te nel buio e ti guarda vivere. È una punizione senza tribunale, la cicatrice che non si mostra ma brucia. E quando tutto tace, lei parla più forte. E tu ascolti.

Non so perché questa storia debba essere raccontata: un uomo vive in media trentamila sere, trentamila tramonti, trentamila possibilità di cambiare. Una sola serata, per quanto sporca di sangue e rimorsi, non può riscrivere tutto un libro. È solo una pagina storta, non l’intero racconto. La vergogna morde, sì, ma non ha il diritto di condannare per sempre, non basta una notte per distruggere una vita, se al mattino si ha il coraggio di guardarla in faccia. Si convive, si cambia, si continua. Perché nessun destino è scritto con un solo errore, finché il cuore batte, c’è ancora spazio per un’altra sera.
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