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LO SCOGLIO

Aggiornamento: 30 mag


LO SCOGLIO

Il pacchetto di Marlboro era semivuoto, ne accesi una cercando di ricordare dove fosse il tabacchi più vicino. Il silenzio riempiva la vallata e i pochi cavalli, a gruppetti, agitavano debolmente le code quasi per rompere la monotonia di quel pomeriggio autunnale. Novembre a queste latitudini arriva sempre mano nella mano con un cielo metallico, un mare d’acciaio che sembra pronto a scaricare piogge di proiettili da un momento all’altro. È un dono per chi ama la stagione fredda, per chi riesce a sintonizzarsi sulle sue frequenze senza sforzo. Dalla macchina non avevo potuto apprezzarlo, schiacciato com’era tra il gracchiare del segnale radio disturbato e la concentrazione che le strade di questi paesaggi montani richiedono. Strade che non perdonano, poco ospitali con chi raramente le batte durante l’anno, simili in questo ai pochi abitanti del luogo. 


Le ‘cose’ non hanno un’anima, sono neutre di per sé: talvolta siamo noi ad aggiungervi un tocco di umanità. Lo stesso vale per le strade: le progettiamo pensando a quando le percorreremo, adottiamo stratagemmi per rendercele meno nemiche, ovvero impassibili al nostro passaggio. Questo non si può dire di quelle che percorrevo quel mattino, lontane dalla civiltà e ricavate a forza, con grande molestia della montagna, da un fianco roccioso. Sono oltre l’impassibilità, si direbbe siano volutamente inospitali: manifestano apertamente il fastidio causato loro dal nostro attraversarle, hanno un’anima vendicativa. 


Il guidatore che le percorre per la gita domenicale in Primavera è la vittima prescelta, quando rincasa dal ristorante in cui si è rinchiuso per ore alticcio e soddisfatto. Ha mangiato, ha bevuto, ha parlato (troppo, come il vino e la superficialità spingono a fare). Forse ha anche consumato un rapporto in quel loculo infame, vecchio e sgangherato che è la sua macchina. E adesso dritti a casa, domattina la sveglia suona presto. Riparte. Inizia una scena pietosa, si è mossi a compassione: è posseduto da una febbre nervosa, la guida è scattante, spigolosa, imprecisa. Le prime curve se le lascia alle spalle, indenne. La moglie, lato passeggero, mugugna neanche troppo silenziosa. Vuole farsi sentire, sì, ma teme che un rimbrotto troppo evidente non possa far altro che peggiorare la situazione, alimentare l’isteria che scuote questo fragile uomo sulla cinquantina. Riprenderlo apertamente, nei fatti, significherebbe pugnalare a morte due figure centrali nella sua auto rappresentazione di ‘maschio’: quella di guidatore provetto e di persona che ha sempre il controllo della situazione. “Amore per favore…” sospira, sfiorandogli la mano. Fragile a volte, ingenuo mai: sa perfettamente che le moine sono volte ad imbonirlo, fiuta la scarsa fiducia nelle sue abilità di guida. Si dubita del suo essere propriamente e debitamente maschio! Mezz’ora fa hanno discusso. I soliti, infantili pretesti. Nascondono le ragioni profonde del dissidio, dissimulate per i motivi più vari. Paura di affrontare ciò che potrebbe mettere in discussione la relazione. Desiderio di esercitare il controllo sull’altro, reclamando attenzioni e dosando con cura recriminazioni e vittimizzazioni. Adesso quella mano, quella maledetta mano che poco fa, tremante di rabbia, gli puntava il dito contro. “Sì, mi sta prendendo per fesso…guardala come non si fida, la stronza”. Reazione: respinge con un colpo la carezza, sbuffa taurino, contrae ancor di più i muscoli. Fuori, la strada: dissestata, irregolare e ghiacciata ma anche crudele, vendicativa e assassina. Li osserva in silenzio e attende. Un minimo passo falso. Una scalata di marcia troppo lenta. Una frenata troppo brusca. Che uno dei due colpisca l’altro staccando per attimi le mani dal volante. Chi osservasse la scena sul ciglio del burrone che si apre pauroso al di sotto potrebbe quasi vederne il sorriso famelico del predatore che sta per azzannare e sbranare.

Il momento fatale: il vuoto, le grida, le lamiere che diventano prigioni di corpi inerti.


LO SCOGLIO


Spensi la sigaretta. I tornanti continuavano a salire, i dintorni tutti uguali non aiutavano la mia memoria claudicante. “Qua dovrebbe cominciare il dritto sulla cima del monte…”, farfugliavo tra me e me. I ricordi appannati dal tempo si rivelavano sempre più imprecisi. Non solo mancavo da troppo, davo anche prova di non essere riuscito a trattenere granché delle esperienze passate. Mi faceva male ammetterlo, un dolore quasi fisico. Più dimostravo a me stesso di non ricordare molto di quei luoghi, più forte si faceva la volontà di indovinare un dettaglio: un albero secolare, un’edicola sacra, un cartello che indicasse l’inizio di un sentiero montano percorso, chissà, tanti inverni prima. 

‘Ricordare’ qui è usato impropriamente. Non si trattava semplicemente di ‘ricordare qualcosa’ come si fa con una scadenza o un appuntamento. I ricordi qui erano materia animata, un magma vitale: ciò che dava senso alla vita vissuta tra queste valli e queste montagne. Ripescarli nel mare degli anni significava onorare il tempo della vita che avevo lasciato in questi luoghi, il me che si era fermato, per sempre, lì. 


Fermai la macchina. Il respiro mozzato dal panico, quel nodo di sangue in gola che precede il pianto. “Se non ti è rimasto nulla, se non sei riuscito a trattenere nulla significa che sei passato per questo pezzo della tua vita come un fantasma. Tu qui non hai lasciato tracce, così come questi luoghi dentro di te” mi ripetevo a mezza voce. Il distacco altero con cui venivo accolto mi faceva gelare il sangue. Mi sentivo clandestino in terra straniera, osservato da mille occhi pettegoli e giudicanti. 


Passò del tempo, parecchio a dire il vero. Decisi di scendere dalla macchina per prendere a piedi la strada che portava al paese più vicino, di cui ricordavo ovviamente il nome (quello sì, lo ricordavo: l’involucro inerte di realtà vive, fatte di sangue e nervi. E io cercavo proprio questo). Fu un gesto istintuale ma al contempo perfettamente sensato. Era infatti a piedi che, da ragazzo, avevo percorso quelle strade: calpestare le orme che avevo lasciato nel terreno mi avrebbe solleticato il ricordo. 

L’aria frizzante e pungente mi entrava nei polmoni, le gambe scalpitavano per spostarsi dall’asfalto verso il limitare del bosco. Il richiamo, man mano che avanzavo, si faceva più forte fino a diventare un bisogno fisico. Un alito di vento spingeva verso di me l’odore del sottobosco: della terra brulla che accoglieva i passi dei camminatori, delle foglie dei cerri e dei castagni che facevano da tappeto, del muschio che vestiva le pietre nude. L’andatura si fece obliqua, presi a camminare come quando si vogliono avvicinare degli animali diffidenti senza che si diano alla fuga. C’era, in questo senso, la consapevolezza inconscia che solo un errare privo di meta e che non andasse dritto al punto - quale punto? non me l’ero ancora chiesto - potesse restituirmi il distillato di memoria che quei luoghi avevano conservato per me. Vagabondaggi di questo tipo restituiscono l’essenza di un luogo perché il camminatore si predispone ad accogliere tutto quello che, casualmente, da quel luogo arriva. Sono passeggiate pressoché inconciliabili con la vita che si fa quotidianamente, non ci sono tappe da coprire coscientemente e in sequenza: lì si guida, nel vagabondaggio si è guidati. 

Fu difatti senza accorgermene che mi ritrovai parecchio addentro al bosco, avvolto dagli alberi e dai ricordi che, ora sì, riemergevano dal fondale. Confusi, colorati, ciascuno pretendendo uno spicchio della mia attenzione. Al distacco col quale ero stato inizialmente salutato, che mi aveva fatto gelare il sangue, subentrò un calore simile a quello festaiolo e travolgente con cui si viene accolti in occasione di certe ricorrenze familiari. Ero completamente sommerso dalle emozioni. La mente ne era così sconvolta che più volte dovetti toccare la corteccia degli alberi per avere la certezza della realtà, di essere presente a me stesso. ‘Eccole, le tracce del tuo passaggio… non poteva essersi cancellato tutto, qualcosa si è salvato…”.


LO SCOGLIO


Perché avevi preso la macchina, in un giorno feriale di metà novembre, in direzione del passato? Perché uscire come un ossesso dal tuo appartamento, niente nello stomaco tranne la moka scolata come sempre in catalessi, correre in strada per cercare la macchina parcheggiata non ricordavi dove, accendere la radio prima del motore - frizione-prima-terza e via - il pacchetto di sigarette comprato la sera prima e consumato durante il viaggio…fino a questo bosco? Avevi la sensazione di esserti quasi obbligato a tutto questo, la fretta un escamotage per non pensarci troppo. 


Scarpinando arrivai alla piccola radura che si apriva piatta sulla cima del monte, sovrastante il paese. Il minuscolo santuario, la panchina di roccia, il tavolaccio di legno dove in primavera le processioni religiose andavano a morire tra svariati bicchieri di rosso e qualche bestemmia innocente masticata sottovoce. Si era aperta una pista tra le nuvole: il sole prendeva la rincorsa e correva là in mezzo, tuffandosi nel mare verde della natura. La domanda rimaneva senza risposta. Perché tornare in quei luoghi? 

I ricordi che prima mi avevano travolto, un’onda nel bosco, li rivedevo là davanti, sotto la luce del sole: cercavo la risposta alla mia domanda tra i volti e le storie che mi passavano davanti. La bellezza dei luoghi, la casa di famiglia che cadeva a pezzi, la comitiva che avevi lasciato mentre ti affacciavi all’età adulta: somigliavano più a dei pretesti, troppo superficiali per spiegare questa che a fiuto intuivi fosse qualcosa come uno spartiacque, una resa dei conti esistenziale. Continuavo a passare in rassegna, immobile. Ero stato qui con lei solo qualche mese fa, le avevo mostrato tutto quello che sapevo di queste montagne. Volevo intrecciare i fili e tessere una trama comune che ci legasse anche in questo, oltre a tutto il resto. Erano posti importanti per me. 

Ragionare con se stessi può essere noioso, perlomeno all’inizio. C’è sempre quella coltre da superare, quel cuscinetto di sicurezza che la mente predispone per proteggere le corde più delicate dell’anima. È una trovata ingegnosa e anche saggia: la volontà pura vorrebbe andare dritta al punto ma le mani della mente prima di toccare e maneggiare certi oggetti del pensiero devono ammorbidirsi, farsi carne.    

Ci giravo attorno, facevo ipotesi. Mi accorsi di aver percorso, col pensiero, una spirale: poche ore prima ero lontano dal comprendere, ero stato investito emotivamente dalla ricerca spasmodica di ricordi che sembravano erosi; gradualmente avevo rievocato e messo a fuoco le singole esperienze, le persone, i racconti. Ora mi sentivo sempre più vicino a cogliere l’essenza di quel viaggio, interiore oltre che esteriore.


Ebbi la netta percezione, immobile sulla panchina e riscaldato dal sole, che quella distanza, quel gelo che avevo percepito inizialmente frapposto tra me e quei luoghi così familiari, non fosse svanito. Era ancora lì, in disparte ma sempre presente. Stavo sudando, avvolto dal cappotto e investito dal sole, ma dentro lo potevo ancora sentire. Era il freddo dell’estraneità: quel vetro trasparente ma solido che si interpone tra persone un tempo vicine e ora sconosciute, separate dal tempo e dall’orgoglioso rifiuto di fare il primo passo per riconciliarsi. 


Non riuscii più a concentrarmi sui ricordi e spostai tutta l’attenzione su me stesso. La domanda, immutata.


Perché coprire centinaia di chilometri per arrivare proprio qui? Viaggiare in retromarcia verso memorie di anni e anni fa? Fino a quel momento ero stato alla ricerca di sponde che mi facessero arrivare in buca: avevo rievocato luoghi, volti, racconti, sentieri, amori, processioni e litigi. 


Ora, immobile sulla panchina e guardandomi l’ombelico, mi chiesi se nel profondo fossi rimasto lo stesso ragazzo che un tempo scorrazzava da un paesino all’altro. La domanda investiva direttamente quel nocciolo profondissimo e duro che costituisce la nostra identità: il nucleo che, mentre tutto attorno e dentro di noi cambia e si evolve, tende a rimanere fermo in se stesso. Lo scoglio che vediamo da piccoli in mezzo al mare mentre costruiamo castelli di sabbia e che ritroviamo, anziani, un pomeriggio feriale d’inverno in cui non abbiamo altro da fare se non andare a passeggiare dove l’aria è buona. 

Non tutti gli scogli sono uguali, non tutti i nuclei dell’identità saldi e fermi in se stessi allo stesso modo. Lo avevi vissuto a tue spese, salatissime, da sempre. Compreso veramente solo negli ultimi anni. Un processo lungo una vita. Pieno di svolte e inversioni, prove e adattamenti. Solo alla fine avevi capito. 


Che non aveva senso tradire te stesso per rendere felici gli altri, anche se questo ti giovava nell’immediato. Essere odiato è un problema, essere amato da tutti uno più grande.

Che non potevi continuare a vivere dei valori e dell’approvazione altrui. Dovevi a tutti i costi dare la caccia all’autenticità: saresti stato vulnerabile, sì, perché volutamente indifeso e onesto; ti saresti però anche sentito finalmente vitale, giusto, coerente.  

Che essere autentico sarebbe stato difficile all’inizio, ci sarebbe stata tensione: ma alla fine le persone ti avrebbero rispettato. Avrebbero fiutato di essere entrate a contatto con la versione più profonda e onesta di te, ammirato il coraggio di cambiare radicalmente. E, in assenza di questo, ti sarebbe comunque rimasta l’approvazione che avresti avuto per te stesso: per esserti finalmente rispettato. Che dovevi spostare il tuo luogo del controllo, da esterno farlo diventare interno. 

Che eri stato persino egoista – beffa suprema, la vittima che diventa carnefice. Perpetrando quel crimine commesso nei tuoi confronti non avevi infatti, nel corso degli anni, impedito a chi ti conosceva di stabilire una connessione profonda con te? Privato quelle persone della possibilità di provare un amore puro e incondizionato nei tuoi confronti? Di toccare con mano, persino di vedere, l’originale e non la copia scadente? Con loro avevi provato a costruire ponti, stabilire connessioni, unire solitudini in nome di qualcosa di alto. Era stata tutta una finzione? Avevi mentito, prima di tutto a te stesso? Sì, ora ne avevi la certezza. Tutti, dal primo all’ultimo, te compreso, vittime di questo tragico egoismo. 

 

È vero, avevi fatto tutto questo solo per sentirti al sicuro, per vedere riconosciuti alcuni dei tuoi bisogni. Ti eri fatto prendere la mano, ti eri scordato chi fossi. 


La vita interiore segue degli sviluppi di cui nessuno conosce, più che le regole, i tempi. Le trame di questa vita, la vita dell’anima, si muovono in silenzio e non si riesce mai a capire quanto manchi alla prossima svolta. Questo, forse, perché ciò che alimenta questo tipo di esistenza sono perlopiù le riflessioni, i pensieri, le sensazioni, le impressioni inconsce. Vivi e fai esperienze: tutto ciò non fa altro che sedimentare nel fondo dell’anima minuscole particelle che, negli anni, montano fino a far debordare il liquido, generare cambiamenti. 


Eri arrivato lassù, senza saperlo e in un giorno qualunque, per salutare il vecchio te. Quei luoghi lo raccontavano così bene: eri rimasto nei sentieri, negli alberi, nelle strade, nei campanili, nei prati e persino nei vecchi del posto. Era un addio. E quel distacco, freddo, che avevi inizialmente percepito era l’estraneità rispetto a tutto quello che eri stato: anche l’odio per la tua vita di prima, per tutti quegli anni vissuti nell’inganno e nella falsità.


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