L'errore democratico
- Andrea Fatibene
- 19 minuti fa
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Nel discorso politico di oggi, gli eventi hanno un valore e i dati che li descrivono ne hanno uno ulteriore. “Ulteriore” non è un termine casuale, per intendere come i dati descrittivi siano un aggregato di diversi eventi, auspicabilmente plenario ma spesso parziale. Ad esempio, uno scippo a Milano — ricordandosi che è possibile registrare solo gli scippi denunciati — è un evento. Il totale degli scippi denunciati in un anno a Milano è un dato. Le abitazioni private, per fare un altro esempio, sono degli eventi — o fenomeni, per essere più precisi — mentre la loro metratura o le loro caratteristiche misurabili sono dei dati. Questi ultimi possono poi essere lavorati con operazioni statistiche come media o moda, o incrociati con altri dati, ad esempio le abitazioni su una porzione di terra specifica.
Allo stesso tempo, i dati, pur rappresentando qualcosa di più dell’evento singolo, non è detto che abbiano la stessa risonanza nel discorso politico. Gli eventi a volte diventano centrali per la loro “trendyficazione”, altre per interessi più opachi legati alla loro diffusione o soppressione. Non è raro quindi sentire fare politica sul singolo evento: per restare a Milano, prendiamo il caso dei bambini rom che hanno investito un’anziana su un’auto rubata o quello del poliziotto fuori servizio che ha investito un giovane mentre guidava ubriaco, entrambi usati dalle contrapposte fazioni per tirare acqua al proprio mulino. Non è però difficile rendersi conto di come, per legiferare, non basti basarsi su questi singoli eventi: sarebbe forse più corretto basarsi su un campione più grande, su quelli che oggi chiamiamo brutalmente “dati”.
Si potrebbe quindi pensare che i dati, così ripuliti dalle contingenze che rendono i fatti facile preda di strumentalizzazione e populismo, siano la base su cui costruire un discorso politico. Quante volte abbiamo sentito qualcuno difendere la propria posizione dicendo: “Non devi credere a me, sono i dati che lo dicono”? Devo essere onesto: anche io ho riposto molta fiducia nei numeri. È facile pensare che qualcosa all’apparenza così solido come il “fare la conta” possa portare la discussione su un terreno scevro da vizi. Per alcune discipline, le cosiddette scienze dure, i numeri esauriscono la discussione, a patto di essere precisi nel contare. Se si fanno i calcoli giusti e si agisce di conseguenza, quell’aereo volerà e quel ponte rimarrà in piedi.
Ma la politica, come potete immaginare, non è una scienza dura. E anche ammesso che si potessero calcolare tutti i numeri della polis e dei polites, da essi non ne deriverebbe una chiara prescrizione. Questo passaggio — che io ho appena negato — ha invece guadagnato crescente popolarità nella retorica politica contemporanea. Qualcuno si ricorderà di come i giovani di Ultima Generazione e compagnia andassero nei salotti televisivi con i loro fascicoletti di studi che, a partire dai dati, spiegavano come o si abbandona il combustibile fossile o il destino è uno solo. Lungi da me negare la legittimità di quei dati in sé, quello che vorrei sottolineare oggi è come il loro uso retorico abbia generato mostri.
Basta aver letto due righe di metodologia della ricerca o di statistica per capire come il dato sia un coacervo di vizi e impurità, soprattutto quando tenta di registrare fenomeni complessi come la vita umana in comune. Questo tipo di dato è talmente viziato — si può corrompere fin dalla raccolta, anzi, fin ancor prima, nella sola scelta di osservare qualcosa piuttosto che qualcos’altro — che si presta a difendere una tesi e, al tempo stesso, la tesi opposta. Basta essere più bravi degli altri con l’arte retorica.
Oggi si parla di crisi democratica e, per quanto io non voglia scendere nel merito del dibattito politico, riconosco che la democrazia sta vacillando. Non perché gli strumenti democratici favoriscano una fazione piuttosto che un’altra, come alcuni frustrati sostengono, ma perché la democrazia di massa — di qualunque colore politico — restituisce un risultato profondamente viziato. Un po’ come il dato statistico descrittivo, il voto nella democrazia di massa è soggetto a un numero infinito di pregiudizi, a partire dal fatto che non ci si può aspettare che i votanti comprendano la complessità della realtà, così come non la comprendono nemmeno i politici stessi.
C’è un dettaglio linguistico, una sottile differenza dai più nemmeno riconosciuta, che distingue la parola “complesso” da “complicato”: costruire un ponte è complicato, perché per quanto richieda tante operazioni difficili e precise, gli strumenti che abbiamo possono esaurire il problema. Un problema complesso, invece, è un problema a cui i dati possono darci solo spiegazioni parziali. La politica è un problema altamente complesso, forse il più complesso. Sarebbe quindi naturale non aspettarsi soluzioni esaustive dai dati, con forme di governo inefficaci o persino contrarie agli interessi dei cittadini.
Ecco, penso che ora la democrazia sia arrivata a questo punto. Le cause sono complesse, ma una chiave di lettura è quella economica — la famosa favola del mercato che si autoregola, ricordate? Mi raccontò questa storia il gigantesco Francesco Tuccari, mio professore di Storia delle dottrine politiche a Torino. Per farla breve, sosteneva che, in una democrazia di massa, tutto ciò che conta è il marketing: esporre se stessi e le proprie idee al maggior numero di persone possibili, così da condizionarle, proprio come si fa con la pubblicità di uno yogurt qualsiasi.
E qui il punto si fa più nitido. La pubblicità su larga scala, a prescindere dal valore etico di ciò che si promuove, ha bisogno di soldi. Che tu voglia dire che gli immigrati servono o che siano un problema, hai bisogno di soldi per avere risonanza. Più il messaggio è pop, più si diffonderà. Il punto è che chi finanzia la politica — il capitale, per così chiamarlo — andrà poi a chiedere il conto dei suoi finanziamenti. È difficile che accetti di finanziare un politico disposto ad agire contro i suoi interessi. E questo, purtroppo, è il cuore del problema.
Il risultato è che lo strumento democratico, in questo contesto, non appare più funzionale a selezionare e difendere il miglior governo per la collettività. Ma quanti oggi osano dirlo apertamente? Sarei tacciato di fascismo se provassi a sostenere che ogni governo eletto democraticamente è, in un certo senso, illegittimo.
E ora veniamo alla mia idiozia di oggi. Dopotutto, l’elezione democratica non è un tentativo di raccogliere il dato del “discorso politico” andando a contare le posizioni di ogni singolo cittadino? Un approccio data-based , si direbbe in contesto scientifico. Ma come ho tentato di mostrare prima, usare il dato per un discorso politico è profondamente parziale, potenzialmente fallace.
Prima di tutto perché in democrazia non votano veramente tutti (alle ultime politiche hanno votato solo il 64% degli aventi diritto). In secondo luogo perché, come già detto, le posizioni politiche dei cittadini sono viziate: la fotografia elettorale democratica non restituisce le reali posizioni, ma il loro riflesso distorto nella comunicazione politica. Poi è necessario considerare la corruzione, sia su piccola che su larga scala — ma di quello neanche parliamo qui. Insomma, pestare una merda in democrazia è troppo semplice. Lo è ancor di più se c’è qualcuno di ricco che ha come legge prima quella di accrescere la propria ricchezza, influenzando chiunque possa limitarla: condizione che si sta configurando ormai da un secolo.
A molti questo discorso parrà un funerale alla democrazia — e in effetti lo è. Io sono sinceramente convinto che questo sistema politico sia giunto a un punto di non ritorno: pensare che possa guarire da solo, con i suoi stessi strumenti, significa non aver capito la portata del problema. Senza dubbio c’è anche chi ha invece capito, ma ha troppa paura delle alternative. Solo un idiota potrebbe azzardarne una. Motivo per cui, da idioti, ci proveremo. Non si avrà la pretesa di essere esaustivi, in primo luogo perché non siamo abbastanza preparati sulle scienze politiche, in secondo luogo perché non abbiamo alcun potere di trasformare la teoria in pratica.
Parto da quel che ricordo della soluzione proposta da Tuccari. Secondo lui è importante ripartire dalla politica locale: perché continuare a eleggere qualcuno in alto, quando pressoché nessun elettore è in grado di comprendere la scala dei problemi di un’intera nazione? Sarebbe anche un modo per costringere i cittadini a occuparsi della cosa pubblica, perché se il bacino elettorale è piccolo, il voto del singolo conta di più. E se il cittadino non vota sul giorno in cui bisogna esporre in strada i cestini dell’umido per il ritiro (come accade in Svizzera), probabilmente si troverà con un giorno a lui scomodo.
Votando solo a livello micro, anche le campagne elettorali sarebbero su scala ridotta: questo costringerebbe i rappresentanti ad avere un rapporto personale con i propri elettori, eliminando le dinamiche di marketing politico su larga scala. Saranno poi loro a eleggere i livelli superiori: dal quartiere al municipio, dal municipio al comune, dal comune alla provincia, fino alla regione. Un “federalismo” di qualche tipo, l’aveva definito Tuccari, perché è chiaro che molte delle decisioni verrebbero decentralizzate, insieme alle risorse e alle responsabilità della cosa pubblica.
Un sistema non privo di falle, ma che ha una sua logica: ognuno si occupa della politica che può comprendere e gestire, e vota solo chi opera su quella scala, in quel luogo, in quel contesto specifico. La democrazia come la conosciamo oggi è una macchina troppo lenta: paradossalmente, se un dittatore fa una scelta sbagliata, può cambiare idea prima che la democrazia faccia in tempo anche solo a vedere le prime infiorescenze della sua scelta. Ma la tecnologia, con il digitale, ci permetterebbe di sveltire il voto, tramite identità digitale, ad esempio. Quello che la tecnologia non ci permette, però, è di comprendere a fondo i problemi complessi e di larga scala, dove il processo decisionale viene corrotto da un’infinità di bias.
Ma, dato che Tuccari non è un idiota, la sua soluzione manca di coraggio. O meglio: pare difficile che, vista la tendenza, i grandi stati-nazione, mossi principalmente dagli interessi dei capitali, scelgano questa strada. Una soluzione a cui, a parer mio, si può solo aspirare come utopia, è che un ultracapitalista illuminato conquisti il mondo e decida di cambiarlo, sacrificando se stesso. Questa persona dovrebbe essere, oltre che un genio, anche un totale psicopatico: per arrivare al vertice dovrà agire con le regole del sistema per poi pugnalarlo alle spalle. Una narrazione suggestiva, ma poco probabile.

Il problema vero è che, oltre a queste aspirazioni, non resta molto altro. C’è chi, meno nichilista di me, penserà che l’uomo possa emanciparsi culturalmente grazie al benessere diffuso dal capitalismo, e dunque eleggere seguendo una raffinata coscienza politica. Ma la verità è che il benessere capitalista di cui godiamo si è fondato sull’oppressione, sullo sfruttamento e, più in generale, sulla violenza esercitata dai popoli forti su quelli deboli. Se ora beneficiamo di tutto questo, è perché altri sono stati male per il nostro bene. Ma ora la globalizzazione, internet e i flussi migratori hanno messo in crisi questo equilibrio. L’emancipazione culturale si è diluita in un mare di povertà e ignoranza che è il residuo del nostro stesso progresso. E questo è un problema che la classe dominante non può risolvere: può solo gestirlo, difendendo la propria posizione con gli stessi strumenti di potere e sfruttamento che l’hanno resa tale.
L’acuirsi dei conflitti ne è indice, infatti anche geograficamente c’è stato un avvicinamento di essi verso la nostra società. Ma se devo scommettere, la guerra — non solo quella combattuta al fronte, ma anche quella civile — per quanto disgraziata, potrebbe essere effettivamente l’unica possibilità di vedere un cambiamento. Bisogna solo capire se, quando s’imbracceranno i forconi, noi saremo quelli con qualcosa da difendere. E se non lo fossimo più, allora converrà anche a noi ribaltare la democrazia e scommettere su qualcosa di diverso.
“Per me, la democrazia è un abuso di statistica. E non credo che abbia alcun valore. Credete che per risolvere un problema matematico o estetico si debba consultare la maggioranza delle persone? Direi di no; allora perché dare per scontato che la maggioranza delle persone capisca di politica? La verità è che non capiscono, e si lasciano ingannare da una setta di mascalzoni, che sono generalmente politici nazionali. Questi signori che vanno in giro a diffondere i loro ritratti, facendo promesse, a volte minacce, corrompendo, insomma.”
(Jorge Luis Borges, in un'intervista con Bernardo Neustadt) L’errore democratico






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