GAZA, OLTRE LE PAROLE
- Federico Grassi
- 3 ott
- Tempo di lettura: 7 min
Cronaca di una resa interiore.

Appoggiare la mano sul portone di casa, sentirlo più pesante del solito dopo una giornata di lavoro estenuante; sapere però che dentro ti aspettano una cena, un po’ di vino e un letto caldo: questa sì che è una sensazione bellissima. Ieri, di martedì sera, ti sei lasciato trascinare in una notte che non voleva finire e che infatti è terminata con la polizia in Via del Panico alle quattro del mattino. Il vino e il lavoro, in fondo, sono simili: entrambi ti consumano. Ma questo non importa. Perché il corpo, ora, reclama tregua, pane e silenzio. Vuole il rito domestico che rimette insieme le ossa dopo che la città ti ha spezzato in mille pezzi. La luce fioca della cucina, il coltello che affonda nel pomodoro, il sugo che sfrigola piano: cose minuscole che diventano scudi. Sei dentro e guardi le fettuccine all’uovo col pomodoro, il pinot nero, la mozzarella arrivata da Napoli, la cicoria, il babà fatto in casa. Tutto sembra disposto per te. Ti senti felice, o almeno ti convinci di esserlo. È vero, devi parlare con la tua compagna: quei dieci giorni di disguidi che ti porti a presso ti ronzano attorno come mosche, ma niente che non si possa risolvere.
«Amore sono stanco» confessi sincero «sono giorni che non dormo» «Perché?» chiede lei, con la voce ancora nervosa. «Da quando abbiamo litigato non sono riuscito a dormire» è la verità, ma ometti le risse, l’alcol, e le risate con gli idioti degli amici tuoi.
Lei ti guarda in faccia e capisce. Non è scema, ma oggi le va bene così: che i problemi restino fuori per un po’, insieme alle sirene e ai vetri rotti. La cena si consuma piano, tra un boccone, qualche carezza e le pareti silenziose di una casa nel quartiere più bello di Roma: è un momento sospeso, fragile quasi, in cui tutto sembra reggersi su un equilibrio delicato. Poi non ricordi bene, forse il messaggio di un amico, o forse la televisione lasciata accesa in salotto, ma non importa: la notizia ti arriva lo stesso, come un vento freddo che bussa alla porta della tua coscienza.
Le barche della Sumud Flotilla sono state intercettate a poche miglia dalla costa israeliana. Nelle prossime ore, dicono, la marina abborderà tutte le imbarcazioni, costringendo gli attivisti a fermarsi. Molti verranno arrestati e portati nei centri di detenzione, poi — almeno in teoria — rispediti al mittente. La società civile è già indignata: in tutta Italia, annunciano, partiranno manifestazioni spontanee, cortei, striscioni, rabbia. «A quest’ora di notte?» Pensi, mentre resti immobile e fissi la forchetta sospesa a mezz’aria, con il pomodoro che scivola giù lento. Lei guarda te, tu guardi lei. «Passami un po’ di mozzarella», dice. «Eccola», rispondi.
Prendi il vino e lo versi ad entrambi, senza pensarci.
Finita la cena lei ti chiede di parlare. Tu rincari la dose: dici che ti fa male la testa, che domani, con più calma potrete discutere. Spieghi che gli ultimi dieci giorni sono stati duri e che adesso vuoi solo riposarti. Lei, probabilmente fiaccata dagli stessi motivi, accetta di rimandare. Stabilite una tregua sigillata in nome della stanchezza e della quiete, almeno per questa notte. Eppure, mentre parlate del più e del meno, la serenità di poco prima non ha più la stessa luce. Ti senti svuotato, ma con addosso un peso che non ha che fare con i postumi della sera e le sue risate. E in fondo, nonostante tutto, non riesci a scacciare dalla mente la maledetta Flotilla. Vi spostate in camera, accendete il televisore e mettete la solita serie su Netflix. Tutto il necessario per essere felici. Il corpo è calmo, sedato; la mente invece resta agitata. I pensieri non si fermano e, tra tutti, ce n’è uno che insiste: alzarsi e andare alla manifestazione. Ma qualcosa ti trattiene: il tepore della casa, la donna che ami, la stanchezza, e l’idea di dormire, finalmente.
Dentro di te, mentre il brusio della televisione ti culla e le luci dello schermo tremano sulle pareti, si accende piano una battaglia dialettica. «Sarebbe giusto andare» ti dici. Eppure, la Flotilla sarebbe stata intercettata comunque, lo sapevano tutti che era una missione votata al fallimento. L’obiettivo era la visibilità, lo scalpore. I viveri avrebbero potuto consegnarli alla Chiesa, che si era offerta come mediatrice. Hanno fatto bene, certo. Ma la tua presenza lì, stasera, cambierebbe davvero qualcosa?
«Sì, ma cazzo» — ti ripeti — l’unica cosa giusta sarebbe andare. Che altro dovresti fare? Restare come un coglione davanti a una serie che nemmeno guardi? Le voci ti rimbombano nel corpo e nella testa. Fuori, i rumori della notte e l’aria fresca di ottobre sembrano toglierti la forza di alzarti, quasi a confermare che restare a casa è la scelta più naturale. Spegni la luce del comodino, ti sistemi nelle coperte. Fissi il televisore senza capire cosa trasmette, mentre il respiro della tua compagna si fa più pesante. È vero: sei un fervido sostenitore della causa palestinese. Il 4 ottobre sarai in piazza e, se ci saranno scontri, non ti tirerai indietro. Ti ripeti che potrai farti valere tra qualche giorno, e che nella vita, in fondo, bisogna scegliere le battaglie per cui combattere. Il sonno allora sembra quasi convincersi delle tue giustificazioni: ti sfiora, ti accarezza. E quando è sul punto di prenderti del tutto, qualcosa torna a bussare alla tua coscienza.
È una domanda questa volta quella che ti scuote: dov’è la coerenza tra ciò che proclami e ciò che metti in atto? A casa hai appeso una bandiera palestinese, non ti tiri mai indietro nelle discussioni, condividi articoli e post sui social, cambi l’immagine del profilo quando serve. Un anno prima del 7 ottobre ci sei andato in Palestina, a vederla con i tuoi occhi. Lo ripeti a tutti: è stato un viaggio che ti ha cambiato la vita, e il popolo palestinese, al di là dei calcoli geopolitici, va difeso per la sua condizione esistenziale. «Porca troia», ti dici, «ma cosa cazzo stai facendo adesso?» Prendi il telefono, quel gesto rituale che si fa appena si recupera la coscienza. Apri Instagram e scorri le storie: Milano, la gente che avanza contro la polizia; Napoli, le stazioni bloccate; Roma, i manifestanti che cercano di forzare il cordone. Guardi, ma ti accorgi che nessuna di quelle immagini viene dal posto. Sono tutte ricondivisioni, reel, video di altri. Ti racconti che potresti farlo anche tu: una storia, un like, ed ecco il tuo sostegno. Mostri il tuo attivismo, alleggerisci la coscienza. È il cammino di mezzo quello più giusto, diceva Aristotele. Sai finalmente cosa devi fare: impieghi dieci minuti a scegliere la storia più adatta, quella più tesa, il video che mostra la rabbia che senti anche tu. Poi clicchi quel fottuto schermo e condividi il tuo disappunto. «Ah, adesso sì che posso riposare», ti dici.
Ti alzi, vai in bagno, bevi un sorso d’acqua, pisci. Ti guardi allo specchio per qualche secondo, poi ti volti bruscamente e ritorni in camera. Le coperte ora sono più calde che mai. Chiudi gli occhi e dormi come un bambino, soddisfatto di te stesso.
Mentre dormi, però, qualcosa si riaccende di nuovo: una piccola coscienza collettiva torna a soffiare dentro di te. Il sogno ora è direttamente una memoria, lucida e spietata: dal fondale riemerge all’improvviso una delle ultime sere, quel momento in cui stavi per uscire di casa con i tuoi amici. Eravate già ubriachi e avevate appena finito di scrivere i testi da pubblicare per i prossimi giorni, quando qualcuno parlò della Palestina. In quell’attimo di euforia avevi avuto un mancamento, un disappunto, una tristezza improvvisa che ti aveva attraversato tutto il corpo. Non che prima non sapessi cosa stava accadendo, ma il contrasto ti aveva colpito dritto nello stomaco e nell’integrità.
Non sai spiegarlo meglio di così: non era la morale a lavorare su di te, ma le condizioni di altri corpi sulla tua carne. Un peso che si faceva più opprimente a ogni passo, e che ti ricordava che c’è chi è stanco perché non può dormire, e non per le troppe avventure della sera prima. Chi vive sotto le bombe, chi scava tra le macerie per ritrovare i figli, chi aspetta ore per un litro d’acqua, chi raccoglie brandelli di carne dei propri cari esplosi in strada. Ma anche lì ti giustificasti come un vigliacco, cedesti all’ignavia e alla passività. Sì, ora lo ricordi bene quello che ti dicesti in silenzio, mentre scendevate le scale ridendo come dei pazzi: «Edoardo, stai tranquillo. La psiche umana non è fatta per sopportare tutta la sofferenza degli altri, altrimenti non riusciresti a vivere. Non pensarci: è un meccanismo legittimo, necessario alla conservazione.» FARABUTTO, VIGLIACCO, INFAME!
Questo ti passa per la testa mentre dormi. Vedi con chiarezza le bugie che un ventiseienne è pronto a raccontarsi pur di nascondersi la vigliaccheria che abita il suo cuore. Nel sonno il disprezzo per te stesso — per la storia su Instagram, per quei ragionamenti da piccolo borghese — monta come una febbre. Ti senti marcire dall’interno, sudi, ti agiti, e di colpo ti svegli. Questa volta non guardi il telefono. Con il cuore che batte forte cerchi direttamente i pantaloni e scendi in fretta le scale.
Pensi solo allo scempio che sta avvenendo nel mondo. Alla quantità di sofferenza umana che adesso, tutta assieme, ti pesa addosso come una pelle che non è la tua, ma che non puoi più toglierti. Piangi, giustamente, mentre sfili la catena dal motorino. Ti metti il casco, la giacca. «Chi non mette il proprio corpo a rischio, chi non è disposto ad alzarsi dal letto per protestare ogni giorno, è complice», ti dici. Complice di questo genocidio. Genocidio, ripeti la parola più e più volte. Ne riconosci solo ora il peso, la lontananza che gli attribuivi, il modo in cui la collegavi a qualcosa di passato, qualcosa che non ti appartiene; ne vedi gli effetti reali, il significato, le conseguenze. Non è più un termine linguistico, ma carne straziata e distrutta. Ti chiedi allora il perché di cosi tanto dolore, e non provi odio per un popolo, ma per un Dio a cui non hai mai creduto. Corri come se non ci fosse un domani — e per molti, in effetti, non ci sarà — e intanto vedi con una lucidità che finalmente ti sembra vera.
Di fronte a noi si sta consumando la più grande tragedia del nostro secolo. Se non riusciamo a unirci e mobilitarci, se non sappiamo sputare sulle nostre comodità neanche adesso, temo che l’umanità abbia davanti un destino oscuro. Ti sorprendi a pensare che, forse, questa tragedia sia anche una soglia. Subito avverti il pericolo di quel pensiero, il cinismo che lo attraversa. Eppure vai avanti. In questo tempo in cui il vero e il bene sono morti, in cui ogni discorso si dissolve in un’opinione o in un’interpretazione qualsiasi, qui resta una verità che sfiora l’assoluto. Questa è la battaglia di cui avevamo bisogno.
Borges scriveva che la verità abita nei labirinti, negli specchi, nelle invenzioni che si ripiegano su loro stesse. Forse è così. Ma oggi dei labirinti di Borges non sai che fartene, perché hai davanti agli occhi qualcosa impossibile da ignorare. Il rimosso torna sempre, ciò che la coscienza non vuole sapere trova comunque il modo di riaffiorare, deformato, allucinato, nei sogni e nei sintomi. La verità oggi esiste ed è terribile: ciò che sta accadendo, ciò che Israele sta facendo, è il Male. Non ci sono giustificazioni, non c’è storia che possa assorbirlo, non c’è sonno che lo addolcisca. È un’assolutezza che ci interroga, che ci brucia, che lacera la nostra capacità di restare inerti.
Arrivi a piazza Barberini e guardi l’orologio. Sono le tre e mezza del mattino, la piazza è deserta. A terra solo bandiere abbandonate, fumogeni spenti, carte sparse. In fondo, dietro la curva, resiste ancora un riflesso di luci blu. Per il resto niente. Sei arrivato tardi. Troppo tardi.
GAZA OLTRE LE PAROLE






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