Il Mito di Marte
- Eugenio Marcigliano
- 5 nov
- Tempo di lettura: 7 min
O come il militarismo non ci salverà dalla guerra


Sin dall’antichità gli esseri umani si sono riuniti attorno ai propri miti. Storie e credenze che ci hanno permesso di interpretare il mondo che ci circonda, i principi che ci governano e il nostro posto nella vastità dell’universo. Molti di questi miti vivono ormai solo tra le pagine dei libri o nelle voci di chi, raccontandoli, strenuamente cerca di ricollegarsi a un passato, spesso perduto ma non dimenticato. Ciononostante, il mondo d’oggi continua a essere impregnato di miti, antichi e moderni. Uno di quelli che più ferocemente persiste e pervade le nostre vite è il mito della guerra e del militarismo, una storia d’amore forse più tragica di quella di Euridice ed Orfeo. Incarnato da Marte o Bellona per i Romani, Montu o Bastet per gli Egizi, Huitzilopochtli per gli Aztechi, e dalle tante altre divinità che si sono adornate con la funesta corona di Dei della Guerra. Oggi gli dei sono stati cacciati, non si portano più gli agnelli o gli schiavi a morire su altari maestosi, non si erigono più statue per esaltarne la gloria. Eppure i miti che li nutrivano, i sacrifici che gli si offrivano e le miserie che li seguivano sono ancora fra noi, gettando ombra sulla nostra capacità di perseguire alternative per il nostro futuro.
Si vis pacem, para bellum
“Se vuoi la pace, prepara la guerra”. È con questa massima o con questo spirito che oggi viene riaffermato il credo del militarismo dai governanti di quasi tutto l’Occidente. La guerra è ormai rappresentata come un’eventualità inevitabile, un’entità le cui logiche e prerogative vanno saziate per assicurare la prosperità e il benessere di cui, ci viene promesso, saremo resi partecipi a tempo debito. Perciò, la militarizzazione si ripropone come unica “soluzione” al disastro imminente e in atto. I militaristi di oggi tentano di nascondersi dietro a discorsi umanitari, securitari e di difesa della democrazia, ma nei fatti essi dimostrano di avere altrettanto pochi scrupoli dei guerrafondai di un tempo. Pur di far crescere gli enormi profitti dell’industria militare sono pronti a togliere alla maggior parte delle persone tutti quei servizi, quelle sicurezze e quei diritti essenziali che abbiamo conquistato con decenni di lotte.
Il progetto di riarmo europeo e l’aumento al 5% del PIL per le spese militari imposto dalla NATO, non sono che le manifestazioni più recenti e drammatiche di un processo in corso da decenni. Infatti, già nel 2024 le spese militari hanno raggiunto nuovi apici, frutto di una crescita decennale continua, superando i livelli raggiunti alla fine della guerra fredda. Questa corsa globale agli armamenti non sta generando prospettive per una pace giusta e permanente, al contrario di quello che ci raccontano i propagandisti e i politici dell’Unione europea. Anzi è intimamente legata al carattere sempre più esplosivo, violento e durevole che stanno prendendo i conflitti geopolitici e sociali negli ultimi anni, dal genocidio in atto a Gaza alla guerra che divampa senza tregua in Ucraina. La loro complicità interessata nel fomentare e aggravare questi conflitti è testimoniata dal loro continuo sostegno per i regimi di Israele, dell’Arabia Saudita, della Turchia e di molti altri Stati impegnati nelle più letali campagne di oppressione del nostro secolo.
La fine della “Pax-Americana"
Dietro a questo periodo di crescente tensione militare si nasconde un profondo mutamento dello scenario geopolitico mondiale. Lo spostamento del baricentro economico verso Oriente ha messo in profonda crisi il modello economico neoliberista occidentale ed i rapporti di potere ineguali che era riuscito a imporre sul mercato globalizzato. L’avvento di nuove potenze imperialiste, quali la Cina e la Russia, rappresenta oggi la più grande minaccia esterna agli interessi egemonici del capitale statunitense e dei suoi lacchè europei.
Questo mutamento dello scenario internazionale alimenta ed è al contempo alimentato da una moltitudine di crisi interne al capitalismo occidentale. Quest’ultimo, dopo la crisi del 2008, si è dimostrato non solo troppo fragile ma anche troppo inefficiente per far fronte alle proprie contraddizioni e mantenere il proprio dominio incontestato sul mercato mondiale. La politica della “pace”, dietro a cui l’élite occidentale ha ipocritamente celato il suo predominio per gli ultimi trent’anni, non è più in grado di rafforzare queste dinamiche di potere. Il sistema istituzionale internazionale è completamente paralizzato e la sua inazione di fronte alle crisi umanitarie in atto è l’ultimo chiodo nella bara della sua credibilità. La guerra torna ad essere il messia di una classe dirigente che si aggrappa con le unghie e con i denti al corpo martoriato dell’umanità e del pianeta per scampare alla propria obsolescenza.
“La guerra è la continuazione della politica per altri mezzi”
È in questo contesto che questa famosa frase, tratta dal Della Guerra di Von Clausewitz, mostra tutta la sua attualità. L’ordine geopolitico istituito dopo la seconda guerra mondiale non ha mai avuto come fine il superamento delle contraddizioni del sistema esistente, del capitalismo fondato sullo stato-nazione. Il suo unico vero scopo era di fornire un quadro all’interno del quale le competizioni geopolitiche tra le grandi potenze potessero trovare una mediazione prima di sfociare in una deflagrazione nucleare. Sin dalla fine della guerra fredda, con l’avvento del monopolio statunitense sulla politica internazionale, queste istituzioni hanno progressivamente perso questa funzione di mediazione per fare da scagnozzi agli industriali e ai finanzieri occidentali.
La retorica sui diritti umani, i trattati di pace, i summit per la cooperazione, sono serviti a nascondere una politica di saccheggio e sfruttamento spesso altrettanto violenta e spietata di quella dei vecchi imperi coloniali. Due casi emblematici di questa realtà sono la “guerra al terrore”, con cui si è giustificata l’occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan oltre che la crescente destabilizzazione del Medio Oriente, e la “guerra alla droga”, che ha imposto un regime di abusi e violenza a tutta l’America Latina così come agli strati più vulnerabili delle nostre stesse società. Ora che questi strumenti “pacifici” non sono più in grado di facilitare questa politica, l’élite occidentale si impegna a smantellarli per far ricorso ad altri mezzi. In questo si ritrova quella continuazione tra politica di pace e politica di guerra a cui accennava Von Clausewitz: le ambizioni lucrative ed espansionistiche degli attori in campo restano le stesse, ciò che cambia è quante vite sono disposti a sacrificare per raggiungerle.
“Il capitalismo porta la guerra come le nuvole la pioggia”
Sarebbe errato credere che il militarismo sia unicamente una risposta a una crisi esterna, come ci raccontano i politici e gli intellettuali sia progressisti che conservatori. Come espresso in questa citazione del socialista e antimilitarista francese, Jean Jaurès, la guerra non è qualcosa di esterno al nostro sistema, ma nasce proprio dai suoi meandri più oscuri. In un periodo di profonda incertezza socio-economica, climatica e geopolitica, il militarismo ha la funzione di garantire la crescita dei grandi capitali da cui dipende il mantenimento del sistema stesso. Non a caso paesi come la Russia e la Cina, dove il capitalismo si è dovuto radicare molto più rapidamente e brutalmente che in Occidente, sono fra i primi ad affidarsi agli investimenti bellici per rafforzare l’economia nazionale e proiettare i loro interessi sulla scena internazionale. Essi nascondono la debolezza dei loro regimi dietro a parate militari, missili scintillanti e repressioni sanguinarie. In molti paesi che ancora soffrono sotto il giogo dell’eredità coloniale, queste nuove potenze si fiondano come avvoltoi sulle carcasse create da secoli di bellicismo occidentale.
Di fatto, gli stessi Stati Uniti hanno sostenuto il loro status di superpotenza con il più grande complesso militare-industriale del mondo, intrappolandosi in una crisi di debito il cui costo viene consciamente e sistematicamente scaricato sulle frange più impoverite della società. Inoltre, le spese per la “difesa” si manifestano in una militarizzazione crescente di tutti gli ambiti dello Stato, soprattutto laddove esistono tensioni politiche e sociali. La pericolosità di questo processo, in un periodo di crescente crisi e polarizzazione, sta diventando sempre più evidente anche all’interno dei paesi cosiddetti democratici, dove il dissenso è soggetto a contromisure sempre più violente. Basti pensare agli eventi degli ultimi mesi in California, dove Trump ha risposto alle proteste popolari contro la sua campagna di persecuzione e deportazione delle popolazioni migranti inviando la guardia nazionale e i marines.
Il mito della Pace
La deriva autoritaria a cui stiamo assistendo su scala mondiale va a braccetto col processo di militarizzazione in atto. Nel profondo, questi fenomeni sono dettati da quelle dinamiche di sfruttamento e saccheggio che sono intrinseche al sistema di produzione capitalistico. La sua inabilità nel risolvere le proprie crisi è il prodotto diretto della sua regola fondamentale: massimizzare i profitti a ogni costo. Il neoliberismo ha permesso il più grande trasferimento di capitali dal basso, dalle classi povere e lavoratrici a quelle più ricche, nella storia dell’umanità. I tagli alla sanità e all’istruzione, la riduzione effettiva dei salari, la crescita del debito pubblico sono i mezzi con cui si sta effettuando la rapina più redditizia della storia. Ma questo non può saziare la sete di profitti, anche se il costo è la nostra salute, la nostra vita, il nostro futuro.
La pace che ci hanno spacciato negli ultimi decenni cela dietro a sé una lotta quotidiana e subdola, una lotta fra chi ha tutto e vuole di più e chi non ha nulla e si aggrappa alle briciole: una lotta di classe in cui un lato ha abbassato le armi mentre l’altro non si fa scrupoli a colpire i più deboli e vulnerabili. È questo forse il mito che più pervade e frena la nostra società, il mito di una pace inesistente, di un ordine sociale che di pacifico ha solo la passività delle proprie vittime. Le guerre in atto e a venire, dove persone di ogni credo, genere, nazionalità, stanno venendo sacrificati sull’altare del profitto, ci devono aiutare a sfatare questo mito. Perché la realtà è che siamo già in guerra e non possiamo più permetterci di restare a guardare.
Il presente sanguina e il futuro si fa più che mai incerto. Le Moire tessono la tela ma esse stesse non sanno quanto filo gli resta. Il militarismo ci spinge sempre più vicini alla bocca degli inferi e Caronte già brama il compenso che gli sarà dovuto. Non posso che chiedermi che fare, sentendo il suono dei tamburi tuonare nell’aria? Che fare, vedendo il sangue ricoprire i campi di aranci e le distese di grano? Possiamo veramente continuare a scalare il monte come Sisifo, sopportando ogni giorno il peso dei nostri dubbi, delle nostre paure, dei nostri pregiudizi, o come Prometeo dobbiamo rischiare tutto, assalire il cielo, derubare gli Dei, per accendere una piccola fiaccola di speranza per tutta l’umanità? Saremo noi a soccombere ai nostri miti o saranno loro a soccombere a noi?
È giunta l’ora di reagire. È giunta l’ora di rompere con la politica delle classi dominanti, con i suoi costanti tentativi di dividere gli oppressi e scatenare guerre tra i poveri. È giunta l’ora di dichiarare guerra alla guerra, al militarismo e a tutti quelli che ne traggono profitto.
Il Mito di Marte






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