Make italian cinema great again
- Tiberio Ensoli
- 18 ago
- Tempo di lettura: 8 min

Il cinema non è un’Arte. Non ne è migliore, non ne è peggiore. Ne è diverso, proprio nel senso latino del termine: si allontana dall’Arte, pur mantenendone un inscindibile rapporto genetico.
In Europa, quando si parla di cinema, se ne postula l’identità totale con Genitrice 1, l’Arte, mentre nessuno si fila quella povera disgraziata di Genitrice 2, che si chiama Industria – sì, la scrivo con l’iniziale maiuscola, come l’Arte. Ecco perché ho parlato di genetica: il cinema si può considerare il figlio di Arte e Industria. Come tale, esso è costituito da elementi propri di entrambe le genitrici, assemblati in modo tale da formare un nuovo soggetto, con le proprie caratteristiche, il proprio carattere, la propria identità.
La visione diffusa in Europa ricorda un po’ il patriarcato quando identifica il cinema come figlio dell’Arte, frutto del suo seme. E Genitrice 2, cioè l’industria? Anche lei ha contribuito alla filiazione, anche lei ha diritto, se non alla potestà, quantomeno all’orgoglio parentale. E soprattutto il figlio generato da questa unione ha diritto ad essere qualcosa di più che non essere figlio (di uno) dei suoi genitori.
Questa metafora familiare ci aiuta a distinguere il cinema dalle altre forme espressive oscillanti tra l’arte e l’intrattenimento – basta maiuscole per oggi. La musica, la pittura, la scultura, la letteratura sono tutte arti. E tutte hanno bisogno di una struttura per essere fruite. Questa struttura, negli ultimi due secoli, è stata fornita dall’industria. Anche qui, quindi, c’è un’unione tra arte e industria, ma completamente diversa dal caso del cinema. Parliamo infatti di arti che sono state successivamente mercificate, in cui i due fattori restano distinti e i relativi prodotti sono scomponibili. “La persistenza della memoria” è un’opera d’arte, e lo sarebbe anche se il MoMA non l’avesse acquistata e non chiedesse fior fior di dollari per vederla.
Nel cinema non c’è mai stata mercificazione, perché esso non è mai stato del tutto distinto dalla merce – allo stesso modo in cui non è del tutto distinto dall’arte, solo che facciamo ancora fatica a digerirlo. Eccolo, il paragone con i genitori: una figlia o un figlio non sono nessuno dei propri genitori, pur essendo in qualche modo entrambi. E come ogni figlia o figlio, tra le affinità e le diversità, deve puntare sulle seconde per crescere bene.
Il cinema si è sviluppato tra tentativi ed errori zigzagando tra varie forme e comportamenti, come ogni tecnologia, servizio e specie biologica. Negli USA, i potenti capitalisti si occuparono subito della faccenda approntando in breve tempo un autentico paradigma che gli accademici chiamano Cinema Classico: c’era un sistema integrato verticalmente, dallo sviluppo del soggetto alla distribuzione in sala, c’erano specifiche caratteristiche formali, narrative ed espressive, c’era uno Star System oliato e cesellato come un orologio svizzero.
Parallelamente, ci sono stati svariati tentativi di inscriverlo nelle arti (e nei relativi ismi): le avanguardie russe – con Ėjzenštejn che voleva affrancarsi dalla narrazione pensando di adattare niente popò di meno che Il Capitale –, l’impressionismo francese – che voleva addirittura affrancarsi da ogni referenza con la realtà ed avvicinarsi alla musica con la ricerca di immagini assolute –, l’espressionismo tedesco – i cui massimi esponenti, per lo più ebrei, trovato asilo negli States dopo la cacciata da parte del tizio con la mosca, realizzarono una felicissima unione con i canoni del Cinema Classico statunitense e partorendo il noir.

Ai tempi del cinema muto, anche noi italiani ce la siamo cavata in termini industriali, abbiamo prodotto, abbiamo esportato, siamo stati apprezzati.
Poi c’è stato quell’incidente di percorso chiamato fascismo, che come tutti i regimi socialisti ha ballato un tango continuo con un capitalismo odiato perché amato. Mussolini voleva la Hollywood di Stato, e tutto sommato ci riuscì. Cinecittà fu fondata nel 1937, mentre l’Istituto LUCE era operativo dal 1924. Si produceva un gradevole cinema di cassetta, domenicale, comunale, parrocchiale come è sempre stata l’Italia, anche sotto la patina di prestanza e bellicosità voluta dal regime: che bella la patria, che bella la famiglia, che bella la vita.
Finita la guerra, è cambiato il marketing, ma lo statalismo è rimasto lo stesso. Abbiamo fatto nostra la lezione dei Cahiers du Cinema e della Nouvelle Vague e ci siamo erti a difensori della Settima Arte di fronte alle angherie del capitalismo. Ma, va detto, lo abbiamo fatto con un senso, inizialmente. Lo abbiamo fatto nel solco di un paese che scopriva veramente l’industrializzazione, che cominciava appena appena ad essere veramente scolarizzato e che vedeva, nel discorso politico pubblico, la cultura legarsi all’antifascismo e quest’ultimo al progressismo estremista. Lo abbiamo fatto, in altre parole, quando c’era mercato per il cinema d’autore.
Nasceva il radicalchicchismo, l’ostentazione di una cultura surgelata divenuta rito in cui si professa di appartere al lato giusto mentre Il Capitale è a prender polvere in libreria - cioè sta assolvendo a pieno il proprio scopo merceologico. Erano i prodromi del Virtue Signaling, con il pubblico stesso a chiedere film d’autore per poi vantarsi di averli capiti come un vero intellettuale - come quando alle medie, tra maschietti, si deve necessariamente dire di averlo lungo 25 centimetri: siamo tutti convinti di essere l’unico sfigato normodotato e dunque mentiamo, temendo di essere gli unici a farlo. Ed è stato un gran bel momento per il cinema, non solo in Italia: Fellini, Antonioni, Kubrick… si facevano film sul crinale tra qualità e conversione economica, con un equilibrio che difficilmente rivedremo di nuovo - non perché film così non li sappiano più fare, ma perché è svanito l’assetto ricettivo che creava per essi una domanda e un mercato.
Sono arrivati gli anni ’80, l’impegno civile ha lasciato il posto alla rivalutazione del benessere personale, i Blockbuster riportarono Hollywood alle origini, autorialità e mercato hanno iniziato a divergere, se non a polarizzarsi.
Da allora, esigenze espressive e commerciali hanno iniziato a seguire binari propri, con le prime che cercano di avvicinarsi ad una fruizione contemplativa, impegnativa, da istallazione museale, e le seconde alla ricerca della massima semplicità.
Il problema fondamentale del finanziamento pubblico al cinema, quanto meno in Italia, è quanto esso voglia mantenere e difendere questo bipolarismo. Come a voler difendere una posizione, a voler tutelare un interesse.

Nel 2023, il Ministero della Cultura ha stanziato circa 259 milioni di euro per il comparto cinematografico italiano, di cui oltre 200 milioni destinati a film nazionali, con un’incidenza diretta superiore al 40% dei costi complessivi di produzione. Oltre l’80% dei film italiani realizzati riceve contributi pubblici: il sistema di finanziamento statale non è un supporto marginale, ma il fine ultimo dell’industria audiovisiva italiana.
È indubbio che sperimentazione e rischio d’impresa siano fattori spesso in contrapposizione, ed in linea di principio la missione del finanziamento pubblico appare anche comprensibile. Ma non si vuol vedere che il cinema, senza un anelito al profitto, non funziona. Non è scomponibile, l’abbiamo detto: l’interesse commerciale non è una componente rimovibile di una struttura modulare, ma è parte del mezzo cinematografico esattamente come la tensione espressiva. Perché, nell’interesse commerciale, c’è qualcosa di profondamente importante per chi vuole essere artista, intrattenitore o comunicatore: il rapporto con il pubblico. Eh, ma il pubblico non capisce, non si possono stare a inseguire gli umori delle masse, il popolo è una puttana… e dai, così siamo buoni tutti. Voler andare bene in sala è un vincolo saldo alla realtà, è ciò che costringe un creativo a farsi capire. Non ha senso propugnare una bellezza di cui solo l’artefice può godere.
E per un po’, in Italia, sembravamo averlo capito piuttosto bene: da quell’obrobrio che fu il neorealismo, sciatto, noiosissimo, inguardabile, siamo arrivati alla commedia all’italiana, acuta, sensibile, DIVERTENTE. Stessa profondità, stessa acutezza d’analisi: cambia il rapporto col pubblico. Laddove il neorealismo pensava sé stesso come perla per un pubblico di porci, la commedia all’italiana utilizzava sapientemente stilemi atti a soddisfare il pubblico come cavallo di Troia per riflessioni, intuizioni, autocoscienza nazionale. Ma per la cultura progressista nostrana, questa semplicità di fruizione è sinonimo di rozzezza becera, buona per le masse fascistoidi ignoranti, ma non certo per la parte migliore del Paese. È il cruccio antropologico della sinistra, la parte migliore del paese che si arrocca su sé stessa lamentandosi di quanto faccia schifo il resto del paese. Chissà se vorranno mai spiegarci come possono essi salvare questo popolaccio ignorante destinato alla tirannia se sono troppo fighi per formarci ogni rapporto. Bah.
Che poi, se il discorso fosse fare film su cui nessuno investirebbe, sperimentali, di ricerca espressiva, di denuncia, sarebbe anche apprezzabile. Poter sperimentare senza il rischio di andare in perdita sarebbe anche un’ottima occasione per tentare arditezze e innovazioni e raccogliere dati per poi correre rischi economici meglio calcolati. Ma magari il finanziamento pubblico funzionasse così: esso ha il solo scopo di tutelare sé stesso. E pressoché tutta l’industria audiovisiva italiana è saltata sul carrozzone, con società create spesso ad hoc per prendere il finanziamento per un singolo film e poi chiudere. Il business è il reperimento di fondi pubblici. Non il ritorno economico, non l’ambizione artistica, non l’accaparramento del pubblico, e nemmeno il prestigio culturale. Ma sul prendere il finanziamento.

Se si analizza l’aspetto tecnico dei film ammessi a finanziamento, si noterà che di arditezza espressiva ce n’è davvero poca: l’unico criterio è l’ostilità al mercato. Un’ostilità per lo più declinata attraverso la scelta di tematiche poco attraenti (alienazione, famiglie disfunzionali, povertà, criminalità, terrorismo). Senza particolari elaborazioni narrative, senza intuizioni formali, semplicemente roba pesante. Una volta che c’è, si prende il finanziamento - innestando un marketing regista-centrico in un contesto in cui la regia conta meno che in un serial statunitense: qua, basta parlare di ragazzi allo sbando, e il film è d’interesse culturale (e, infatti, la regia dei film dichiarati d’Interesse Culturale è quasi sempre di una banalità disarmante).
Altra declinazione è quella della sperimentazione. Anche qua, con la stessa logica di Titoli ed Esami: lo sperimentalismo alla regia è essenzialmente famolo strano. Stesso discorso: purché sia palloso va tutto bene. Niente trama, niente filo logico, niente basi per fare una grande regia: scriviamo scenette a caso e facciamo gli ottovolanti con la macchina da presa, i piani sequenza che non guastano mai, magari i viraggi cromatici da film muto. È Arte, eh.
Poi si trovano davanti C’è ancora domani e, per carità, troppo scorrevole, troppo intrattenete, troppo KOMMERCIALEH, vade retro. Infatti, è stato record d’incassi. Che significa che un sacco di persone l’hanno visto. Che significa che un sacco di persone si sono schifate, indignate, hanno riflettuto, hanno fatto ammenda. Questo è Interesse Culturale.
Se il finanziamento pubblico al cinema d’Interesse Culturale è questo, lo si può abolire tranquillamente, o quantomeno, per onestà, lo si può ridefinire cinema d’Interesse Clientelare. La Treccani definisce la cultura come ‘Complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche, delle manifestazioni spirituali e religiose, che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico’. Non parla di ‘campionario di nozioni ostiche, poco interessanti ed appannaggio di una ristretta cerchia di individui superiori’, come sembra aver invece inteso lo Stato. Parla, in pratica, di Alberto Sordi, Renato Pozzetto, Checco Zalone, Cristian De Sica, Massimo Boldi - piaccia o meno. L’unica cosa che il sistema Interesse Culturale tutela è la carriera di un’oligarchia di registi, produttori e attori votati a seguire le veline emesse da tale sistema, esitando in prodotti che molto raramente recuperano costi sostenuti da noi contribuenti.
Scialacquare le nostre tasse in questa masturbazione è uno scandalo non più accettabile.
Caso emblematico è quello del regista americano Francis Kaufmann, che ha ottenuto 863.000 euro in tax credit per un film mai realizzato ed è stato successivamente arrestato in Grecia con accuse gravissime. Il caso ha sollevato clamore mediatico e istituzionale. Il 5 luglio 2025, Giorgia Meloni ha dichiarato: “È ora di voltare pagina: basta sprechi, anomalie, irregolarità. Negli ultimi anni si sono create storture che hanno portato a finanziare interi film con milioni di euro di tasse che finiscono per generare pochi incassi.”
Si, cribbio!
MAKE ITALIAN CINEMA GREAT AGAIN!
Dobbiamo liberarci di questo sistema chiuso, dell’oligarchia che lo alimenta e dell’aberrazione radical-elitaria che lo protegge. Dobbiamo rimettere al centro il pubblico, il mercato, il rischio. Dobbiamo rimettere al centro i soldi.
Non perché siamo capitalisti brutti e cattivi, ma per ripristinare il legame più onesto che il cinema deve avere con la realtà: quello con chi guarda.
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