Sono figlio della mia generazione, di quelli nati senza arte nei grigi anni Ottanta, in quel crepuscolo provinciale che odorava di fumo di sigarette economiche e promesse svanite.
Erano vent’anni che non si vedevano e che non parlavano.
Come dice la canzone: «Telefonami,
telefonami tra vent’anni».
E così fecero, settemila giorni dopo.