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Europei popolo di pigri burocrati

Europei popolo di pigri burocrati

Europei popolo di pigri burocrati

In questi ultimi mesi i social e i telegiornali di tutti il mondo ci mitragliano a raffica con le loro notizie, dichiarazioni di leader politici che invocano la fine del mondo dopo che la presidente guerrafondaia von der Leyen ha annunciato la necessità di un piano malefico per aumentare la spesa militare degli stati membri dell’Unione Europea.  

All’interno di questi due schieramenti si trovano vari branchi di individui con i rispettivi capi branco, che si danno la caccia non sapendo in realtà di appartenere alla stessa famiglia. Questo testo vuole essere proprio una risposta a questi due fronti, descrivendo le problematicità di ciò che li accomuna. 


Tra i principali oppositori dell’incremento della spesa militare e del progetto ReArm Europe (che sarebbe stato più sensato chiamare Defend Europe ma quello è un'altro discorso) si collocano infatti due categorie che, pur disprezzandosi a vicenda, finiscono spesso per condividere gli stessi voti nei parlamenti e gli stessi slogan nei cortei: la destra populista sovranista e la sinistra radicale pacifista. Da un lato, la destra rifiuta ogni progetto di difesa comune in nome della sovranità nazionale; dall’altro, la sinistra si oppone per ragioni etiche e sociali, denunciando la militarizzazione dell’Unione come una deriva pericolosa e una distrazione di risorse  dalle vere priorità: il welfare, l’istruzione, la sanità (motivazioni per certi versi condivisibili). Due traiettorie ideologiche opposte, dunque, che trovano però un punto di convergenza nel rigetto di quella che viene percepita, per motivi diversi, come una militarizzazione imposta dall’alto.

 

In mezzo a questo groviglio, si fa quindi strada una narrazione che sembrerebbe apparentemente lucida, pacata, forse a tratti persino nobile: quella che invita l’Europa a fermarsi, a riflettere, a non cadere nella trappola della paura; si afferma che il riarmo sia solo una reazione irrazionale, una risposta primitiva all’ansia collettiva del cittadino europeo, un cedimento all’isteria strategica. Chi la sostiene si richiama alla ragione, alla storia, all’umanità.

Si comincia dalla psicologia della paura: la nostra cara Europa, dice Andres Acosta, sta militarizzandosi non per necessità, ma per angoscia. Il pericolo dunque non sarebbe esterno, ma interno: è il panico che contagia le istituzioni e paralizza il pensiero critico. Questa lettura risulta essere, a esser buoni, distaccata dalla realtà.




Chi la propina probabilmente vive in una specie di oasi campestre dove occuparsi semplicemente dei suoi sogni bucolici, tenendo alla porta la realtà che bussa inascoltata.

Certamente c'è anche una dose di paura a guidare l'Europa, accompagnata tuttavia dalla presa d’atto che è in corso un mutamento storico: la guerra è tornata sul continente, la guerra è tornata protagonista dello scenario internazionale, negli ultimi due decenni si sono riaperti e incendiati vecchi fronti - caldissimi - come il Medio Oriente e il confine orientale con la Russia; e aperti di nuovi, come quello che ospita la contesa nel pacifico tra Stati Uniti e Cina. Segue poi la rievocazione della Pax Europea da parte di Bulgarini, presentata come un'epoca d'oro che il riarmo tradirebbe irrimediabilmente; ovviamente si dimentica però che quella pace è stata garantita proprio da un equilibrio di forze, alleanze militari e da una deterrenza condivisa. Non è mai esistita un’Europa disarmata e protetta solo dal dialogo: è esistita un’Europa libera perché difesa, una diplomazia efficace perché supportata da capacità credibili di minacce di ritorsioni in caso di violazioni delle regole dell'ordine internazionale.




Chi evoca oggi la cooperazione come alternativa alla difesa dimentica che senza la possibilità di proteggersi, nessun tavolo negoziale può reggere, poiché la diplomazia è utile quando si ha qualcosa da difendere e i trattati valgono solo se c'è qualcuno pronto a farli rispettare.

Altra costante è la denuncia della militarizzazione come tradimento dell’identità europea. La domanda sorge spontanea: quale sarebbe questa identità? Quali sono le sue caratteristiche? 

Se si cercasse di trovare un tratto identitario comune tra tutti i cittadini degli stati membri dell’Unione, (considerando il vero significato della parola identità, che deriva dal latino idem, cioè stesso o medesimo) ci si accorgerebbe di finire inevitabilmente in interpretazioni forzate su tutta la storia del continente europeo. Si dovrebbe parlare quindi più correttamente di valori condivisi come la democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani, anche se questi hanno un confine piuttosto labile e vengono facilmente violati da alcuni stati membri, senza subirne alcuna conseguenza, portando così a contestarne la loro autorità soprattutto negli ultimi anni. 

Citando testualmente: "Basta essere pedine su una scacchiera imposta da altri.
Libertà, sfida e autodeterminazione devono tornare ad essere le armi con cui l'Europa si forgia in un mondo senza paura né sottomissione."

In questa teologia del declino europeo, il cittadino è rappresentato come una pedina manipolata, incapace di capire e decidere per il proprio futuro, privo di ogni forma di potere e sottomesso alle proprie istituzioni e a burattinai d’oltreoceano. 


Questo atteggiamento potrebbe sembrare una forma di antiamericanismo, con un cucchiaio di populismo di destra o di pacifismo woke benpensante a seconda della sponda politica, ma purtroppo non è così. Sarebbe stato molto più semplice. In questo caso siamo di fronte a una nuova malattia, non ancora classificata ufficialmente, che affligge i cittadini europei da ormai molti anni. Si tratta della sindrome del burocrate. Un morbo silenzioso, educato, perfettamente integrato nei codici del benessere occidentale, ma non per questo meno insidioso. Il cittadino europeo colpito da questa sindrome non è un ribelle radicalizzato, ma neanche si potrebbe definire un vero e proprio reazionario; è anzi, composto, istruito, favorevole al progetto europeo, spesso anche al riarmo e all’integrazione. Ma tutto finisce lì.


Il suo europeismo non è un'adesione ad un ideale capace di generare tensione, ma piuttosto un contratto a tempo indeterminato, con tanto di previdenza integrativa. Non sogna un’Europa capace di autodeterminarsi davvero, di essere un soggetto all’altezza della storia e dei difficili eventi che la attendono: sogna un ufficio a Rue de la Loi, un badge, un pacchetto welfare armonizzato. È un europeismo da dipendente pubblico, nel senso più piatto del termine: preciso, rispettoso, incapace di rischiare, estraneo a ogni volontà trasformativa, come ruolo di cittadino gli basta funzionare e che il suo sistema regga abbastanza da garantire continuità ai propri piccoli privilegi; saltuariamente mostra capacità di reazione e allora parte all’attacco: si lamenta, si indigna, scrive post vibranti quando si ricorda che l’Ungheria ha il diritto di veto. Ma non muoverebbe un dito per cambiare la struttura che consente a quel veto di esistere, perché cambiare significherebbe mettere in discussione l’equilibrio da cui trae beneficio. E il burocrate, si sa, preferisce l’inerzia al rischio. 


L’ambiente ideale di incubazione per la sindrome del burocrate è rappresentato da tutti i vari tirocini all’interno delle istituzioni europee (Bluebook, Schuman ecc...). Si tratta di esperienze altamente selettive e retribuite, che ogni anno coinvolgono circa 1.900 giovani nei palazzi di Bruxelles, Lussemburgo o Strasburgo. Una cifra che sembra consistente, ma che impallidisce se confrontata con il quadro generale: ogni anno in Europa sono 3,7 milioni i giovani (tra i 18 e i 35 anni) che iniziano un tirocinio come prima esperienza professionale. Dunque solo una piccola élite dello 0,05% di questi accede a un tirocinio presso le istituzioni dell’Unione, con un rapporto di 1 su 2.000. In questo gruppo ristretto non si sviluppa una coscienza critica per immaginare un nuovo assetto politico più ambizioso, ma tramite una forma di assuefazione al funzionamento si rafforza l’idea che il sistema esistente (per quanto le sue problematica siano evidenti) tutto sommato sta facendo progressi. Quanti proclami si sentono ogni settimana sui nuovi pacchetti approvati, sui nuovi regolamenti e direttive, di come stiano costruendo un Unione sempre più solida attraverso il dialogo e la cooperazione.


Eppure i dati in realtà dicono altro. 

Secondo i sondaggi di YouGov/TUI Foundation 2025 su oltre 6.700 giovani europei (16--26 anni) il 39% dei cittadini europei considera l’UE “non particolarmente democratica”, mentre il 53% la ritiene concentrata su questioni futili o marginali. E se il 51% dei cittadini europei, in questa percentuale si definiscono tutti “europeisti”, (aggettivo troppo astratto, cosa significa chiaramente esserlo ancora oggi è oggetto di dibattito)  definisce l’Unione “una buona idea, ma attuata in modo molto inadeguato”. Questo dimostra che c’è una tensione latente, una domanda di trasformazione reale che non trova praticamente mai voce all’interno dei corridoi istituzionali.

Tornando ai due schieramenti e alle relative posizioni espresse,  essi partecipano pienamente alla sindrome del burocrate,  questo non avviene tanto dal punto di vista contenutistico, ma per l’impostazione mentale che propongono. Entrambi denunciano l’Europa come corpo paralizzato, lacerato, travolto da paure e logiche altrui, ma non immaginano mai un’Europa da ricostruire attraverso l’assunzione di responsabilità politica.; in fondo, anche loro delegano, proprio come un  burocrate quando gli tocca svolgere qualcosa che non sarebbe di sua competenza. Oppure quando si verifica un cortocircuito o una crisi la colpa è sempre di qualcun altro: le élite, la NATO, i mercati, gli altri tecnocrati. Inoltre in nessuno dei due schieramenti compare un modello di partecipazione attiva, nessun tentativo di articolare cosa significherebbe davvero una difesa europea autonoma.

Il riarmo dei paesi europei è parte fondamentale della fisiologia stessa di un’unione politica che ambisca a contare; garantire la sicurezza collettiva dell’Unione visto i tempi che si prospettano  richiede strumenti, risorse, infrastrutture, e che piaccia o no inevitabilmente le armi.

L’essere umano fin dalle sue origini le ha sempre maneggiate, esse sono state un prolungamento del corpo, uno strumento per estendere lo spazio d’azione, per difendersi dal nemico; non esiste civiltà nella storia che non abbia avuto una propria cultura della difesa, e l’Unione Europea non dovrebbe fare eccezione. Anzi, è nata politicamente proprio attorno a questo nucleo materiale: carbone e acciaio, i due elementi fondativi della CECA, servivano proprio a costruire armamenti. 


Condividere le risorse belliche significava evitare nuove guerre all’epoca, oggi dunque l’aumento della spesa militare non significa militarizzare l’Unione, ma gettare le basi per ciò che è sempre mancato all’Europa: una difesa comune con un esercito europeo, capace di autonomia strategica.

In conclusione anche l’argomento più ricorrente nei discorsi contrari al riarmo, cioè quello di sostenibilità della spesa, l’idea che ogni euro speso in difesa sia un euro sottratto al welfare, all’istruzione o alla transizione ecologica è un luogo comune che non regge alla prova dei dati. Attualmente, l’Unione Europea nel suo complesso spende per la difesa quasi quanto la Cina, circa 240 miliardi di euro l’anno, ma lo fa in modo disorganizzato e inefficiente, attraverso 27 eserciti, 27 logistiche, 27 strategie non coordinate. Dunque questa frammentazione comporta un enorme spreco di risorse. Ad oggi il 78% della spesa per la difesa nell’UE è puramente nazionale con effetti minimi sulla capacità operativa complessiva; in una condizione paritaria di risorse, una gestione integrata e centralizzata permetterebbe un aumento significativo dell’efficienza e della deterrenza, evitando duplicazioni nei sistemi d’arma, nei comandi e nelle strutture. Inoltre, portare la spesa militare al 2% del PIL, è fiscalmente sostenibile per la quasi totalità degli Stati membri: si tratterebbe di un aumento in media dello 0,4–0,6% rispetto ai livelli attuali, compensabile con razionalizzazione interna e strumenti finanziari europei. É necessario anche considerare che investimenti in tecnologie dual use ( come la cybersecurity, aerospazio, IA) generano effetti moltiplicativi positivi sul PIL, rafforzano filiere industriali strategiche e riducono la dipendenza da fornitori esterni.


Si può quindi continuare ad evocare punti di non ritorno, presunti tradimenti dei valori della UE, identità culturali e sottomissioni per non prendersi alcun tipo di responsabilità. Oppure smettere di comportarsi da burocrati che rincorrono il solo benessere economico, prendendosi la responsabilità di gettare nuove basi per realizzare finalmente un progetto di unione politica. 


Europei popolo di pigri burocrati


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