top of page

La questione del riarmo come sintomo

La questione del riarmo come sintomo

Quella del riarmo è una questione complessa, senza risposte che si possano dire univoche, come ben illustrato dai testi precedenti a questo. Davanti a tale complessità un primo riflesso, assai naturale, quasi sano, è quello di porre domande, quello di sperare che levigando e finalmente ponendo la vera domanda allora la vera risposta inizierebbe a definirsi. 


È forse questo che sta dietro al primo testo di questa rubrica, che è nella sua essenza una collezione di domande: cos’è la guerra oggi? A cosa serve? Vi sono alternative? Quale sarebbe il prezzo da pagare? Più generalmente, quale sarebbe l’impatto? Le domande son chiaramente contestualizzate, voglion far pensare, far riflettere, e comunque alla fine comunque rimane imponente quel sentimento iniziale: che è una situazione troppo complessa per qualunque di esse, probabilmente anche per tutte esse insieme. 

Ed è forse da quello che uno può cominciare, nell’andare oltre le parole, nelle emozioni che le animano. Di questi tempi dove il ruolo delle razionalità è messo in primo piano, dove abbondano le analisi: rigorose, giuste addirittura, dobbiamo ricordarci che quello che muove le persone, son le affettività. Alcuni dei migliori e più rigorosi ragionamenti di questo mondo si trovano, nella pratica, a vallo delle emozioni ed interessi dei loro autori. Questo non è certo per dire che quelle analisi sian per ciò inutili meno valide; che anche il freddo e il distacco sono modi di sentire.



Di affettività, giustamente, ve ne son tante, e ammettere che son quelle che guidano il pensiero (degli individui così come delle nazioni) non ci dà per forza una guida su come agire. Per questo possiamo forse iniziare dal particolare, provando ad esplorare quelle presenti in questa rubrica, e veder dove ci porta questa lente di lettura.

In questo campione vi son vari testi, colmi di affettività, che van nella direzione dell’indignazione o della protesta, a volte in prosa, come “La paura come architetto del potere”, a volte in poesia, come “Poetica del dissenso” e “Morire nudo, caldo, e liberato”.  Al di là delle differenze tra i testi, esprimono un particolare modo di vivere la questione del riarmo, questione più ampia di sole opinioni. Leggendone le parole ciò che colgo è fondamentalmente una sensazione di sfiducia verso la classe governante. Nella misura in cui una chiusura così totale al dialogo con “il sistema” rischi di diventare autoreferenziale, percepisco queste posizioni come toccate dalla stessa miopia che spesso quel sistema porta alle loro voci. Ne riconosco il valore poiché mostrano investimento ed espressione, ed è una responsabilità della classe politica dialogare con loro, ma non sentendo un’affinità ad esse non sono quelle su cui meglio posso costruire la mia, di affettività. Ve n’è una, viceversa, che sento molto vicina, ed è un affettività diversa dalla rabbia delle precedenti, diversa dalla prudenza del testo di apertura.


Cosa fare quando uno sente la propria patria (e molti di noi son cresciuti fieri di essere Europei) assumere sempre di più il ruolo di una zavorra? È nell’ultimo testo, scritto da qualcuno che ha un investimento molto più pesante nella questione, che trovo un sentimento molto meno celebrato, in generale, di quelli presenti in altri articoli. 

Benché nel testo la prospettiva sia introdotta dal punto di vista mondiale e ancor più specificamente americano (poiché quando qualcosa è “...sfruttabile, ma non fruttevole... é zavorra”). Per esplicitare ciò che intendo esporre vorrei completarla con una prospettiva per così dire dall’interno; dal punto di vista di quel battello Europeo, che è designato come sola zavorra.



Quella che vedo, quella che sento, è un’Europa il cui timone si è rotto. 

A livello politico siamo reduci di un tempo in cui timonavamo dall’alto della nostra convinzione di essere la cosa più vicina ad una vera pace dei popoli, la Pax Europea di cui parla l’articolo “L’Europa armata”, secondo testo della rubrica. Gli interessi personali esistevano – nessuno è assai naïf da pensare non vi fossero – ma quel credo ci portava ad assumere un ruolo di guida. Benché non siam sicuramente sempre stati i paladini che ci siam convinti fossimo, quel credo ci portava ad agire con decisione, come ogni guida si deve di fare. Se sia giusto arrogarsi questo ruolo ha meno rilevanza del fatto che siam generalmente stati percepiti come un modello da seguire, svogliatamente o meno.


Quel credo ci portava ad agire con decisione; è qui che sento la questione varare dal riarmo a qualcosa di più ampio, ed è qui che si può sviluppare un’altra sfumatura d’affetto, comune a molti ragazzi e meno ragazzi che conosco. Detto in modo succinto, nel momento in cui come Europa prendiamo decisioni deboli, o applichiamo evidenti doppi standards (nessun politico europeo, per quanto politicante sia, penso creda profondamente che Israele si stia anch’esso “difendendo”, per fare un esempio attuale) allora le nostre azioni perdono forza e decisione. Perdiamo credibilità, non solo con le altre nazioni, ma anche con noi stessi.


La questione del riarmo è sintomatica di qualcosa di più largo. Molto spesso si confondono due piani, quello della forza, e quello della militarizzazione. Vi è il sentimento che se ci riarmiamo allora saremmo più forti, e dunque più credibili, più rispettati e dunque più ascoltati. Il rispetto però non viene dal potere, ma dalla decisione delle proprie azioni nel limite dei propri poteri. 

Un esempio che penso ognuno di noi può sentir vicino è che l’insegnante che non ha standard definiti, elevati, ed implementati non viene rispettato dagli studenti malgrado il potere in suo possesso, malgrado il fatto che possa sbottare quella volta o due. Ciò che manca all’Europa in questo momento è quel rigore, quell’esigenza e quella conseguenza. Rearm o no, è proprio nel fatto che la questione è posta, posta e riposta, senza reale progresso, che giace il problema.

È vero che la militarizzazione ci renderebbe più indipendenti, più pronti, ma il problema è a monte. È vero che la non-militarizzazione rispetterebbe la nostra tradizione umanistica e diplomatica, ma il problema è a monte. A poco serve l’indipendenza se poi si è paralizzati nell’utilizzarla ed a poco serve la diplomazia se non si ha credibilità. Il problema europeo è che la gran parte delle sue azioni negli ultimi anni, in contesto estero soprattutto, sono state compiute per così dire a metà; mancando spesso di rigore, di esigenza, di conseguenza.


Non sono abbastanza qualunquista dal ritenere che la questione sia semplice, è ovvio che parte di queste mancanze son dovute al meccanismo stesso dell’Unione (molto più democratica di quanti molti pensano) e in particolare al ruolo dell’unanimità nella presa di decisioni, al rispetto del concetto di compromesso e anche a tratti a una semplice volontà di tutelare i propri cittadini. Pur prendendo tutto ciò in conto, l’esito dovrebbe essere una decisione sofferta, e non una non-decisione. Se il meccanismo europeo è inceppato allora sta alle principali nazioni europee  trovare una soluzione alternativa, decisa e, importantemente, unita: un’Europa a geometria variabile, per dirla come Delors, potrebbe dunque essere una soluzione concreta.

Al di là di questa opzione appena accennata non son qui per fare un’analisi di quelle rigorose, giuste, come ve ne son tante; i dati ed i case studies forse cambierebbero le opzioni a disposizione, ma di certo non il sentimento di impotenza, quella precisa affettività che informa il mio pensiero e il mio modo di prendere parte alla politica. Quello che riuscirebbe, viceversa, a fare ciò son le azioni, quelle coraggiose, quelle difficili, quelle decise. Non ritengo neanche di avere la chiave di lettura migliore; forse per la sopravvivenza del battello Europeo, come entità e idea, una soluzione si rivelerà giusta e l’altra no, ma di certo non è in quest’inedia che giace il suo futuro.



La questione del riarmo come sintomo

È una simpatica coincidenza semantica che quando il timone si rompe l’unico modo di guidare la barca è con la zavorra, spostandola da babordo a tribordo a seconda della direzione che uno deve prendere. Forse quello è lo stadio in cui siamo, provando a mantenere vivo quel credo che ci ha portato dove siamo ora. Ma nel momento in cui anche l’equilibrismo diventa troppo difficile da mantenere allora il battello è semplicemente alla deriva, ebbro, non diverso da quello di cui parlava Rimbaud, che solo desiderava alla fine dei suoi viaggi che la sua chiglia esplodesse; che, affondando, imitasse le zavorre.


La questione del riarmo come sintomo


Commenti


© 2025 L' Idiot All rights reserved

bottom of page