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Chi sono i decisori?

Aggiornamento: 11 nov

Chi sono i decisori?

Il piano ReArm Europe sarà probabilmente ricordato come una svolta storica nella cooperazione militare e di sicurezza europea. Come ha osservato il Presidente del Consiglio europeo António Costa, una posizione unificata in materia di difesa era “impensabile solo poche settimane fa”, definendo questo momento come la nascita di una “Europa della difesa”. In precedenti saggi sono stati giustamente affrontati temi come: il vuoto socio-culturale nella politica europea contemporanea [Mattia Bulgarini, 2 maggio], conseguente all’atmosfera tecno-individualistica e neoliberale a cui ci siamo in larga parte conformati. Altri hanno espresso preoccupazioni sui pericoli del riarmo e sul possibile fatto compiuto che tale svolta potrebbe comportare [Jose D'Alessandro, 30 aprile]. Un saggio, dal tono foucaultiano, ha analizzato come la paura e il discorso siano strumentalizzati per giustificare decisioni politiche, crisi e conflitti, contribuendo a perpetuare e rafforzare strutture di potere preesistenti [Andres Acosta, 2 maggio].


Da questo ventaglio di prospettive emergono, a mio avviso, alcune domande fondamentali: chi decide in merito al riarmo europeo e quali sono le motivazioni che guidano tali decisioni? Il titolo dell’articolo, “Chi sono i decisori?”, non si riferisce a nomi specifici, ma intende comprendere la loro mentalità, il modo in cui i leader interpretano il mondo a partire dal contesto in cui operano. Quali intenzioni sottendono questa grande narrazione securitaria in questo particolare momento storico? I cittadini comuni, che aspirano a vivere in pace, dovrebbero sentirsi rassicurati da un rafforzamento militare come deterrente alle minacce esterne, oppure preoccuparsi per una militarizzazione che si sviluppa parallelamente a un implosione sociale e a un’erosione della coesione all’interno delle società europee? 


Negli ultimi venticinque anni, l’integrazione europea in ambito di sicurezza si è spesso rivelata lenta e complessa, talvolta stimolata da shock esterni che hanno messo in luce la mancanza di forza militare dell’Europa, la sua debole politica estera e la perdurante dipendenza dagli Stati Uniti. L’Europa è stata spesso rappresentata come Venere, considerata ingenua sostenitrice del multilateralismo e dell’interdipendenza, in contrapposizione agli Stati Uniti marziali, inclini alla politica di potenza. ReArm Europe può essere inteso come un chiaro avvicinamento a Marte, un’accettazione della politica di potenza in risposta all’ascesa globale dei regimi autoritari. Ma non si può ignorare il tempismo del cambiamento di orientamento europeo. Dobbiamo leggerlo come una capitolazione all’aggressività americana, o come un tentativo di acquisire autonomia strategica uscendo gradualmente dal sistema di sicurezza statunitense? Oppure entrambe le cose? 

Ancora una volta, fattori esterni si sono dimostrati determinanti nel promuovere l’integrazione europea, non solo per la ricorrente volontà europea di emanciparsi dal proprio partner atlantico, ma anche per la crescente percezione di una minaccia proveniente da Est. È fondamentale chiarire che la minaccia russa non si esaurisce nell’aggressione all’Ucraina. Da anni il regime di Putin è impegnato in una guerra ibrida sul suolo europeo: interferenze elettorali, promozione della violenza estremista, diffusione di disinformazione, attacchi alle infrastrutture energetiche, strumentalizzazione dei flussi migratori per generare instabilità sociale. Da un punto di vista geopolitico, il rafforzamento delle capacità difensive europee appare dunque logico e legittimo.


Anche all’interno della logica del dilemma della sicurezza, è scorretto presumere che ogni rafforzamento militare conduca inevitabilmente alla guerra. Le guerre sono più spesso provocate da decisioni sconsiderate da parte di leader che restano lontani dal fronte. Questi decisori agiscono frequentemente sulla base di motivazioni che divergono radicalmente da quelle delle popolazioni che governano: ambizioni espansionistiche, interessi economici, ideologie religiose, rancori storici, traumi generazionali irrisolti, o il desiderio di rafforzare il consenso interno dirottando l’attenzione dell’opinione pubblica. Tuttavia, quando il conflitto si intensifica, l’odio reciproco e la violenza consumano la società a tal punto che chi ha dato avvio alla guerra viene spesso dimenticato.


È qui che entra in gioco il quadro morale del jus ad bellum, ovvero l’insieme dei criteri che stabiliscono se una guerra possa essere considerata giusta. Sebbene aspiri a tracciare limiti etici, la storia è colma di esempi in cui la demagogia politica ha alimentato paura e odio a tal punto da rendere la guerra una scelta emotiva inevitabile, piuttosto che una decisione razionale e giustificabile. Una volta avviato il ciclo della violenza, la ritorsione segue rapidamente, mascherata da una giustificazione morale.

Ciò solleva un’interrogazione ancora più profonda: i criteri del jus ad bellum risultano già manipolati prima ancora di essere invocati. Il discorso politico è spesso costruito proprio per inquadrare le azioni all’interno di una logica morale che rafforza la presunzione di legittimità. Se così fosse, allora l’unica posizione etica coerente sarebbe ritenere che la violenza non sia mai giustificabile. In mancanza di tale principio, rischiamo di vivere in un mondo in cui il presunto diritto di autodifesa di uno Stato diventa un pretesto per atrocità e il linguaggio morale si trasforma in un velo retorico che copre la brutalità politica.


Questa manipolazione dei quadri morali rimanda nuovamente ai decisori, che operano con piena consapevolezza delle componenti irrazionali, emotive e tribali delle società che guidano. Lungi dall’essere ignari, spesso sfruttano questi istinti con grande precisione.

Ciò non significa che i decisori non siano mai chiamati a rispondere delle proprie azioni. I processi di Norimberga rappresentano un importante precedente storico per la condanna dei crimini di guerra commessi dagli Stati, affermando il principio di responsabilità individuale. Tuttavia, la responsabilità, quando arriva, giunge spesso a posteriori, quando il danno è ormai irreversibile, e il pentimento non porta alcun sollievo alle vittime. Peggio ancora, non sempre gli imputati sono condannati moralmente nel proprio paese. Figure come Slobodan Milošević e Radovan Karadžić sono state elevate a eroi da ampie fasce della popolazione serba, piuttosto che considerate colpevoli.


In entrambi i casi – giustizia ritardata o colpa glorificata – lo schema è identico: i decisori non vengono significativamente limitati in anticipo. Rimangono liberi di perseguire interessi egoistici o strategici, senza ostacoli sostanziali, fino a quando le conseguenze diventano irreversibili.

Che cosa ci dice tutto ciò in merito a ReArm Europe?

Suggerisce che il riarmo non sia intrinsecamente problematico, a condizione che esistano meccanismi efficaci in grado di impedire la manipolazione del jus ad bellum. Anzitutto, noi cittadini europei dovremmo poter contare sulla responsabilizzazione della leadership: che chi detiene il potere sia vincolato dallo Stato di diritto, frutto di secoli di elaborazione come massima espressione dell’interesse collettivo, in linea con principi come il “velo d’ignoranza” di Rawls. In secondo luogo, a condizione che lo Stato di diritto venga applicato con fermezza sia a livello interno che internazionale, e che la sua necessità derivi da un’idea di giustizia fondata, effettivamente al servizio dell’interesse comune solo se applicata in modo eguale. In terzo luogo, a condizione che i nostri leader diano costante priorità alla diplomazia rispetto all’uso della forza, come mezzo di prevenzione, de-escalation e compromesso.

Tuttavia, la logica di questa argomentazione ci costringe a porci una domanda scomoda: queste condizioni essenziali – che si riducono alla sanità del sistema democratico nel suo funzionamento più efficace e ideale – sono effettivamente soddisfatte nell’odierno sistema europeo? O le intenzioni dei decisori si realizzano troppo spesso senza reali controlli da parte delle istituzioni democratico-civiche?


Chi sono i decisori?

Il dibattito su questo tema mette in luce i fallimenti sistemici delle nostre strutture socio-politiche, che ostacolano il legame incondizionato tra democrazia e potere, un allineamento necessario per un’interazione.




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